Delle donne Greche: dottrina degli antichi intorno alla felicita’.

Percorso anni addietro il territorio antico della Grecia, dell’isola di Creta, ove gli occhi si posarono sugli scavi del palazzo di Cnosso, di civiltà Minoica e qui parliamo di 2.000 anni a.C. Civiltà riconosciuta come la prima nel Mediterraneo: attratto dalla lettura, mi sono soffermato su una lettera di Nicola Vivenzio inviata a Donna Elena Dell’Andoglietta. Chi sono costoro? Vivenzio nacque a Nola, si addottorò in diritto e fu giudice della Vicaria nella capitale del Regno delle due Sicilie; esercitò dal 1783 al 1792 (anno della sua morte). Dell’Andoglietta, nata nel Salento nel 1780, divenuta avvocata di fama, doveva essere fanciulla quando ricevette la lettera del Vivenzio, amico di famiglia. Perchè questa lettera? Perchè si parla di donne greche e del loro valore come esempio di virtù.

“Alla Signora D. Elena Dell’Andoglietta

Madamigella.

Vi parlai dei due opuscoli di Plutarco che voi bramate tanto di leggere; l’uno, degli apostegmi delle donne Spartane; I’altro, delle donne illustri. Il carattere delle Spartane sembrerà certo superiore assai alla comune condizione delle donne; ma questo era l’effetto della educazione che nelle republiche Greche si dava loro; non essendovi stato alcun popolo, che avesse avuto leggi migliori per sostener l’onestà e la virtù fra le donne. In Isparta e nell’altre antiche republiche Greche, gli uomini erano educati nell’amor della patria, e nel valore; così pure que’ savii legislatori, riguardando la perdita del costume nelle donne, come uno de’ più gravi mali dello stato, posero ogni cura nell’ educarle per modo, che lontane dalla mollezza e dalla vanità, destassero negli uomini la loro ammirazione, con esser di esempio ad opere virtuose. Un Greco diceva che le donne viver dovessero in si riserbato modo, che neppure della loro virtù ne pervenisse notizia alcuna; o che fossero di tali egregi costumi, e lodevole vita, che ognuno venisse costretto parlarne con riverenza, ed onore. Omero descrive gli opposti caratteri di Penelope e di Elena, due donne celebrate e famose nell’antichità. Elena la più bella fra tutte le Greche dell’età sua, e adorna di tutti i pregi e le grazie della natura, ma vana e leggiera, era moglie di Menelao Re di Sparta. Paride figlio di Priamo, Re di Troia, preso dalla bellezza di una tal donna, fa riceversi per finte ragioni come ospite in casa di Menelao, scoprendo ad Elena l’amor suo: ed ella, mentre che ascolta con piacere le voci di questo ardito ed insidioso amante, se ne compiace, e fugge con lui. I Greci per vendicar tanta ingiuria, unitisi insieme, dopo una lunga e feroce guerra e dopo tanti memorabili avvenimenti, distruggono infine la casa di Priamo, e Troia; e il nome di Eiena rimane in abbominazione fra’ Greci egualmente, che fra’ Trojani. Penelope, moglie di Ulisse Re d’ Itaca, giovane e bella, saggia e virtuosa, rimane sola col piccolo Telemaco suo figliuolo, mentre che Ulisse è costretto di seguire ancor egli i Greci nella guerra di Troia. Molti giovani divenuti amanti di Penelope cercano di sedurla ed ella elude per lungo tempo con ingegnosi e prudenti modi, le importune richieste di tanti amanti; fino a che, dopo molti anni, tornato Ulisse, gode con lui e con Telemaco tranquilla pace, lodata da tutti, ed ammirata e il suo nome resta poi celebrato sempre fra le donne di Grecia, e ricordato, come d’illustre esempio, che imitar si dovesse da loro. Con tali piacevoli immagini, Omero oppone il vizio alla virtù, , e fa comprendere per sensibili modi i tristi effetti, che seguono la leggerezza, e la vanità di una donna. La stessa educazione delle donne greche si dava alle loro donne da’ nostri antichi Sanniti. Essi aveanò in costume di adunare ogni anno i loro giovani, giudicando quale fra loro fosse il primo per lo valore, e per lodevoli azioni, e così gli altri appresso. Colui che giudicato veniva il migliore fra tutti, scieglieva in moglie la giovane che egli volesse; poi il secondo, e gli altri dopo. E quale incitamento non era questo per le giovani Sannite di educarsi fra semplici, e gravi maniere, che i Sanniti insieme con la bellezza, amavano nelle donne per essere scelte poi dal migliore fra loro? Così presso gli antichi Romani, finché i costumi furono severi, si trovavano quelle donne ammirate fra loro: ma quando in Roma un lusso prodigioso accrebbe l’idea de’ piaceri, estinguendovi ogni virtù, i costumi e le idee furon del tutto pervertiti e corrotti . Or siccome le donne, quasi tutte, seguono sempre il carattere più rilasciato della Nazione in cui vivono, si veggono tanto occupate della lor vanità, ed intente solo nel ricercar nuove e studiate maniere di ornarsi per accrescere la loro beltà e renderla più piacevole ad un maggior numero di adoratori che arrestandosi a contemplarle, debbano tutti esser presi dalla bellezza, e da’ vezzi loro. Questa tal vanità di piacere a molti, e farsi ammirare, rende familiari alle donne alcune idee, che possono produrre in loro funesti effetti; essendo difficile assai che una donna, la quale si espone perpetuamente alla seduzione di un gran numero di folli adoratori, possa serbare intera la virtù sua. Voi mi chiedete di sapere qual sia tra’ filosofi Greci fl migliore che abbia ragionato della felicità. Alcuni dissero che il viver conforme alla natura fosse la vera felicità ed altri, che solo i Savi potevano esser felici, mentre il comune degli uomini ha sempre riposta la sua felicità nel piacere, nelle ricchezze o nel soprastare agli altri per dignità e per onore e passioni. Ma i piaceri di una vita voluttuosa corrompono il corpo, illanguidiscono l’animo e rendono gli uomini del tutto inadatti ad opere virtuose. Le ricchezze non producono per se stesse alcuna felicità: e l’affannosa cura di accumularle, ed il timore di perderle, destano sempre nell’ animo di chi le possiede una perpetua perturbazione. Gli onori, e le dignità, che pure sono menati dalla volubile mano della fortuna, non rendono gli uomini nè felici, nè migliori, anzi se prima il costume loro era corrotto; per gli onori, e per le dignità che acquistano nell’ ordine civile, diventano maggiormente perversi, ed odiosi. Vi sarà dunque nella vita umana alcuna felicità? Per ora vi dico solo che all’uomo saggio felicità può venir sol dal cielo.”

Da “Lettere scientifiche di vario argomento di Nicola Vivezio, 1812”.

“La cardiognosia di don Michele”

Don Michele Bianco da Torre le Nocelle, in provincia di Avellino, è nato nel 1966 a Baselice, nei pressi di Benevento, ed è sacerdote, rettore del santuario di San Ciriaco, teologo, esorcista, scrittore, e docente universitario. Al pensare che un uomo possa essere capace di tanto, si fa fatica a credere che possa essere vero. Don Michele é davvero tutto questo. Il parroco instancabile, serve il Signore officiando messa, ricevendo pellegrini e chiunque voglia confessarsi o confidarsi con lui. Il suo tempo é dedicato al prossimo, ai suoi studi, alla meditazione e alla preghiera. Durante le solenni festivitá, si immerge anima e corpo nelle processioni e conduce il popolo per le strade del paese e con le preghiere a Dio. Con la zimarra addosso, don Michele testimonia il suo attaccamento alle radici della Chiesa, e questo, al di là delle apparenze, fa la differenza nel mondo ecclesiastico. Don Michele é dotato di “carismi” intesi nel significato teologico di doni divini elargiti dal Cielo a vantaggio dell’intera comunità; interessante, tra questi, la “cardiognosia”, e cioè la “conoscenza dei cuori”. Dal greco cardia = cuore e gnosis = conoscenza, tale termine indica la capacità di comprendere i segreti del cuore. E proprio mentre don Michele legge i cuori di coloro che gli parlano, non può non notarsi la trasmissione di una straordinaria serenità. Colloquiando con lui, si nota la sua vasta cultura testimoniata dalle frequenti citazioni latine condita da una manifesta intelligenza. Quando si dialoga con don Michele, ad un tratto, quasi all’improvviso, egli esprime delle frasi precise, precisissime, a volte diagnosi cliniche veritiere che soltanto dalla conoscenza della scienza medica potrebbero provenire, e non da un uomo che medico (di fatto) non è, ed è lì che don Michele diventa “tramite”, perché è tramite quei momenti improvvisi di parole precise che ci trasferisce quelle frasi che non possono che provenirgli dal Cielo. E lui continua, senza stancarsi, tutti i giorni, con brevissime pause di riposo, risponde a tanti, instancabile officia messa, riceve in confessionale e parla. Parla con una serietà che non è pesantezza ma è, per dirla come Calvino, “planare dall’alto”, guardando con giusto distacco ed obiettività, consigliando la soluzione più saggia, non risparmiando sentimenti solidali ed anche espressioni ironiche. Sempre ricchi di contenuto sono i suoi discorsi, limitati al solo bene, evitando quanto può esserci di superfluo, perché nel superfluo e nell’inutile c’è il diabolico. Andateci, andate a trovarlo presso il santuario di San Ciriaco a Torre le nocelle (Av). Che crediate o no.