“Cambiare l’acqua ai fiori” di Valerie Perrin (2019)


Un libro importante, che ha rapito i più, come dimostra il numero di copie vendute. Malinconia francese, c’è, nel libro, come francese è l’autrice, Valerie Perrin, fotografa, artista. Traduttore italiano, Alberto Bracci Testasecca. Francesi l’ambientazione e i nomi dei personaggi, malinconico il tema ricorrente della morte intrecciata col ricordo ma simpatiche le digressioni umoristiche e soprattutto la descrizione e la colorazione degli ambienti e personaggi che sanno più di rappresentazioni sudamericane. Moderni riferimenti a marche di saponi, “Dove”, a canzoni moderne, di Elvis, e a situazioni contemporanee.
Bello davvero il libro, se non altro per l’avvicendarsi precipitoso e vorticoso di fatti e dinamiche ma anche perché ogni paragrafo inizia con un titolo che è una frase fatta di poesia, e, messe tutte insieme, le frasi che sono i titoli dei paragrafi, fanno esse stesse un romanzo o forse una poesia. Quindi poesia nei titoli e prosa nei paragrafi. E la tematica regina, attualissima, che forse non tutti colgono e che rende difficile la lettura (soltanto, perché è in genere alquanto scorrevole) a coloro che vivono la stessa realtà, ebbene il tema vero del libro è la vittimologia della donna preda dell’uomo autore di violenza domestica. Un uomo che rientra a pieno titolo nelle statistiche attuali, nato e cresciuto da una madre dominante, narcisista, prevaricatrice, anaffettiva. Lui stesso vittima di lei e di se stesso, e pur cercando di redimersi, cercando spiragli di giustizia, non la raggiungerà perché probabilmente il giusto non l’ha mai conosciuto.
La vera vittima è lui perché l’autrice sapientemente riveste di dignità la donna malcapitata che è caduta in amore per questo uomo/ bambino, e le dà la possibilità di vivere ancora e comunque. E di rinascere, non e non soltanto, prendendosi cura di se stessa ma sopratutto di altri e di altre cose. Dei fiori, per esempio, portando e cambiando l’acqua ai fiori.

Pensiero del luglio “88

Sono sulla riva

tirami verso di te

insegnami a nuotare

o guida la mia canoa

o mostrami l’orizzonte

e come evitare il crespo la schiuma e i pescecani

ma non rimanere a guardarmi

attraverso una lente estranea

guardami con i tuoi occhi

e non lasciarmi davanti al mare.

Il Pinto Mood a Montoro (Av): il Direttore del DIPSUM dell’Università di Fisciano presenta il nuovo libro “Il Brigante e il Generale“ in prosieguo di “La guerra per il Mezzogiorno“.

L’altra sera, si è svolto un evento culturale, a Montoro (Av), nella frazione San Pietro, all‘insegna della presentazione del libro “Il brigante e il generale“ (Laterza ed.), fresco di premio Acqui Storia 2023 per la sezione scientifica, scritto dal prof. Carmine Pinto, Direttore del Dipartimento degli Studi Umanistici dell’Università di Fisciano. É un libro di storia e, già per questo suo valore intrinseco, insegna, come da locuzione degli antichi “historia magistra vitae“, ma  il volume ha anche un suo plusvalore, quello di attenersi, nella narrazione, esclusivamente a fatti accertati attraverso la ricerca,  l’analisi e lo studio di fonti documentali – in più occasioni l’autore l’ha definito “un viaggio tra i luoghi e  tra le carte“ – pervenendo anche alla risoluzione di diatribe storiografiche. Insomma, un prodotto artistico derivato da impegno, metodo scientifico, e sicuramente passione. Ed è un libro che si fa leggere per una nuova scrittura narrativa che lo differenzia dalla precedente opera dello stesso autore, che è un saggio, sempre edito da Laterza e pluripremiato, dal titolo “La guerra per il mezzogiorno” (2019), ma in linea di continuità con quest’ultimo, se non altro per le similari immagini di copertina tratte dalle pitture dell’8ooesco Giovanni Fattori di cui sono conosciute le “scene brigantesche” richiamanti la tematica principe di entrambi i volumi, e, mentre il saggio si sviluppa come una panoramica estesa, il secondo appare come uno zoom su persone e luoghi. Nello specifico, l’ambientazione è nell’Italia post unitaria, periodo di transizione e di crisi dal quale scaturirà la Nazione; attraverso la descrizione tridimensionale di due personaggi antitetici, e dei posti in cui sono vissuti, il meridione di Italia, l’autore fa luce su un fenomeno, una questione sociale, il brigantaggio, da taluni tramandato come una sorta di eroismo, ma che la scrittura di Pinto restituisce nella sua reale dimensione di vero fenomeno criminale; si ricordi che l’autore è anche, tra le altre cose, studioso di storia militare e di guerre civili. E la scorsa serata, a Montoro, hanno partecipato all’evento il senatore Andrea De Simone, il quale con piacere ha ricordato l’amicizia decennale che lo lega all’autore e ha citato un suo testo centrato sui costumi culinari dell‘800 la cui prefazione è del prof. Pinto; c’è stata, poi, la manifestazione di condivisione del sindaco di Montoro, Girolamo Giaquinto, puntualizzando il valore della verità non contaminata da menzogna e quindi tramandata nella sua assolutezza; poi, si sono sviluppate le riflessioni di lettura del medico legale, Elena Picciocchi, discendente della famiglia Pironti-Galiani a cui appartiene la location dell‘evento, la quale ha richiamato alla memoria quanto tracciato dal suo bisnonno, Aurelio Galiani, uno dei primi sindaci del territorio e già anni addietro sostenitore della Montoro unita, il quale, in uno dei suoi contributi, si espresse con terminologie molto simili a quelle usate dall’autore del libro presentato, in merito alla distinzione tra mistificazione e verità storica: come il Pinto nel suo testo afferma: “il mito non trasfiguri la personalità“, così il Galiani, riferendosi al fenomeno infestante dei briganti criminali, dice “dal campo leggendario scendiamo in un altro di effettiva cronaca nera, piena di ferocia e di sangue“ (cit. da Montoro nella storia e nel folklore, 1990). Quindi, la parola è stata consegnata al protagonista della serata: l’autore, panomaricando sulla trama, ha centralizzato il suo discorso sulla finalità dell’opera che è quella del definire “come si fa una Nazione“, attualizzando e ricordando che il pensiero politico non può prescindere da quanto già avvenuto nel passato, da una visione obiettiva di tutte le variabili e delle inclinazioni differenti e anche contrarie, e da una correttezza di verità, nonchè da prontezza nel fronteggiare le incognite. Hanno fatto da cornice all’evento, in questa sera di fine estate, i  giardini del palazzo Galiani-Pironti dalle geometrie settecentesche e dalle piante secolari rimaste intatte, ove  si crea e si sente un feedback, un interscambio, un richiamo, e sul quale è sceso il tramonto nel corso dell’evento, come notato e detto dall’autore per inciso nel suo discorso: “questo tramonto che ha reso ancora più intensa questa storia“ .

1991 – Intervista a Don Leone Maria Iorio sulle “Tentazioni diaboliche”.

Don Leone da Cairano, parroco del comune di Andretta (AV), esorcista riconosciuto sia dalla Chiesa che dal popolo, fu molto sensibile alla richiesta di essere intervistato. Pieno di fervore cristiano si prestò volentieri a trattare argomenti difficili per “accendere la speranza” attraverso l’informazione.

Don leone, ci informi su come il male tenti alla vita dell’individuo.

il demonio si insinua promettendo la felicita’, ma è pura illusione che porta ad una tale delusione che a sua volta conduce ad una esasperazione che sfocia nella distruzione, che è l’ultimo traguardo. Inizia la sua azione facendo avvertire un vago malessere che simula una malattia organica o mentale. Il sofferente non trova sollievo con niente e man mano che passa il tempo, peggiora sempre di più; a volte, il soggetto, ha momenti meno dolorosi ma è sempre il demonio che per non farsi scoprire, consente degli apparenti miglioramenti, facendo credere che si tratti di malattia che, a volte, potrebbe anche coesistere. Qui, in tal caso, mentre la scienza indaga sui processi naturali, sotto l’aspetto scientifico, la Chiesa vede oltre, dietro questa parvenza scientifica, nel sottofondo, vede un essere che ci odia da morire e desidera la nostra fine. Nel Vangelo abbiamo il caso di un epilettico indemoniato ove coesistono, la malattia (epilessia) e la possessione diabolica. In sostanza, col tempo, la vittima avverte una voce che si esprime con frasi distruttive, tipo: “Ma che ci stai a fare”, “Non vali nulla”, “Non è meglio che ti suicidi” e questa è la fase più pericolosa di rischio suicidio.

Alcuni anni fa, Papa Wotyla annunciò ufficialmente che bisognava combattere il demonio. Lei ha affermato che il male agisce di nascosto,

“Si, è molto abile. Dice Sant’Alfonso che la forza del demonio è nel camuffarsi; quando si svela è perduto. Eva cadde nella trappola perchè non fece domande; non fu tentato Adamo perchè l’uomo è più portato al raziocinio. La donna, nelle scelte pratiche, si fa dominare più dal sentimento e dalla fantasia che dal raziocinio. Non fu tentato Adamo perche’ avrebbe potuto chiedere “chi sei tu, da dove vieni, cosa mi vieni a dire”; con Eva invece, fomentando, riscaldando la sua fantasia, allettando la sua vanità, non le diede la possibilità di fare domande. Santa Teresina afferma che se la donna si fermasse un attimo a riflettere, non cadrebbe nelle tentazioni diaboliche.

Guarigione di carcinoma facciale senza estirpazione; pel medico-chirurgico condotto Stefano Melina ( Gazz. Med. ltal. Tosc. )

E’ Stefano Melina (1927-1997) omonimo e discendente del Medico condotto a Carife, sua patria, a riportare alla luce il brano che segue pubblicato sul giornale medico napoletano “il Severino”, sulla Gazzetta Medica Italiana Toscana, sul n. XVIII (anno XXX) dell’Osservatore Medico del 15/09/1852. L’eperianza singolare su un caso di carcinoma vegetante sulla gota di un giovine del posto, rende ragione di come la tradizione (…di uso comune fra la popolazione) possa curare forme simili fra loro e più gravi nella espressione patologica, con la guarigione e la restitutio ad integrum del tessuto interessato.

“In Carife del Principato Ultra, un contadino presso a dieci luslri di età, di temperamento sanguigno, de­dito a’ liquori spirilosi, da più anni avea nella gota sinistra un porro che emulava la grandezza d’un pisello. Intento egli a lavori campestri, in un giorno della stagion novella, s’avvide che s’ingrandiva nel volume e di giorno in giorno sempre più inollran­dosi, prese poi il perimelro di un uovo colombino. Indolenle non più, come per l’avanti, ma invece mo­leslo ed affliggenle gli si rese. Paventava I’infelice in tal posizione e nell’ansia di alleggiarsi delle sue sofferenze, da sè, volle applicare localmenle delle mal­vale a più riprese; ma che! lungi dal giovargli, il tumore anzidetto progrediva per lo peggio, finchè screpolandosi in mezzo ad un’ abbondante secrezione di lava icorosa, si pronunziava a modo di un piccol ramo del comune CavoJfìore. ln vista di tale scon­cerlo bramò senlire il mio consiglio e menlre gli acconsento, senza esitanza, gli feci marcare il grave interesse che ispirava il maligno tumore; dichiarava trattarsi del vero Carcinoma volgare di De Sauvages e, sotto tal concetto patogenico, gli amministrava di­versi rimedi discioglienli, presi dalla classe delle so­stanze solanacee, dalla cicuta maggiore, coll’opinare di Stork. Usava pure I’olio essenziale della piombaggine Europea, giusla il formulario del testè riferilo scrittore nella storia da lui inserita negli atti dell’Ac. R. des Sc, anno 1743; ma tutto ali’indarno. L’im­portanza del serio malore, il dovere, nè casi pro­cardici, di dipendere dal consiglio di altri professori, mi spinsero sino ad obbligare il misero paziente per­chè a ciò avesse adempito. Di fatti, gl’invocati colleghi, unanimamenle e senza indugio, convenivano per l’estirpazione, qual unico mezzo di salvezza. Ed innanzi di eseguirsi in tal giusto dettato, convinto con Stork ed allri sapienti figli di Esculapio, che talora anche nelle cose poco stimate e volgari, il poter di natura è ammirabile; esortai ad ungere sull’aperto tumore l’intero succo addominale dello Scarabeo paluslre, in uso presso il volgo, perchè provato dalla esperienza valevole a distruggere i porri in qualsivoglia sito del corpo, e che io, per curiosità volli estendere anche al soggetto caso. Da questo operato, bello si fu il vedere tutto di escara circondato l’aperto tumore; escara, la quale poi esfoliata , e più volte ripetuta lasciò osservarne menomato il volume; fintanto che di giorno in giorno, succedendo lo stesso, si appiccolì tanto, da far travedere non più che breve traccia di se stesso senza rimaner turbata l’eleganza della gota male affetta. Tutto il trattamento fu della durata di quindici giorni, impiegandosi uno per volta di quegli scarabei palustri per motivo che ospitano d’ordinario nelle paludi, ove più facilmente si osservano ne’ mesi di maggio e settembre, e dopo caduta delle pioggie.”