Lo scorso settembre, la frazione Misciano di Montoro (Av) ha perso un uomo buono. Non si tratta di parole retoriche ma chi ha conosciuto la persona, di cui stiamo scrivendo, sa che è stato davvero così. Ed oggi essere buoni è un privilegio di cui poter vantarsi con molta cautela.
Di indole mite, pacifica, tollerante, esortante, il maresciallo Antonio Russo, classe 1948, ha avuto un grande posto nel mondo e non soltanto per la sua devozione all’Arma. Oltre al sacrificio per il servizio -si ricordano la sua capacità di muoversi nell’ambito della fotografia forense e il suo intervento in occasione del terremoto che nel 1980 mise in ginocchio l’Irpinia, allorquando Russo era in servizio presso la stazione di S. Angelo dei Lombardi (Av) e fece ritorno alla propria casa soltanto dopo aver coadiuvato al recupero e al trasporto di tutti i corpi delle vittime innumerevoli estratte in quei giorni di continue e pericolose scosse di assestamento- larghe sono state le virtù spese nel proprio spazio quotidiano con le persone incontrate sul suo cammino.
Centralità nella sua vita ha avuto la famiglia: marito legatissimo alla “mia signora” per più di 40 anni, padre di Margherita e Annamaria, “le ragazze” per le quali si è prodigato, zio affettuoso come un padre, nonno di Grazia, la “nipotina” ormai laureata, di Antonio, il ragazzo che ha seguito le orme arruolandosi nelle Forze dell’Ordine, e di Ludovica, silenziosa adolescente affezionata.
Il maresciallo Russo era devoto alla vita, un ottimista anche a fronte di una malattia terribile che l’ha sconfortato soltanto per qualche attimo. Rimasto coraggioso, tale da commuovere i medici. Gentile e garbato, e mai disperato, come, probabilmente inconsapevolmente, fa un vero cristiano.
Il suo funerale (nella foto un momento della funzione religiosa) è stato celebrato nell’antica chiesa del paese da don Vincenzo Romano, congiunto del maresciallo, anziano prelato dalla voce ferma e decisa, e da don Giovanni Mascia, attuale parroco di Misciano.
Sarà il suo un ricordo perenne, così come lui, sempre, in qualsiasi stagione dell’anno, accorreva, con la sua caratteristica camminata “veloce veloce”, per adempiere, per aiutare, per collaborare, per portare un messaggio di vita.
Ora è “libero”, come da sue ultime parole, di accorrere ancora, e in un’altra forma, soprattutto da chi ha tanto amato.
(Lettere dell’onorevole Gladstone a Lord Aberden sui Processi di Stato del Regno di Napoli. Torino 1854)
La lettera ci immerge nel clima pericoloso ed instabile che si visse negli anni successivi al 29 gennaio1848 nel Regno delle Due Sicilie. Gladstone, statista inglese liberale, all’epoca della stesura della lettera era Cancelliere dello Scacchiere (Miistro delle Finanze). nel 1851, di ritorno da un soggiorno a Napoli, denunciò il regime poliziesco borbonico ad Aberdeen, Primo Ministro Inglese.
“Caro lord Aberdeen
Debbo cominciare una lettera ch’io temo tornerà molto penosa per voi, anzi ecciterà la più alta vostra indegnazione… La condotta del governo di Napoli, in ciò che riguarda i veri o supposti rei polilici, è un permanente oltraggio alla religione, alla civiltà, all’ umanità e alla decenza pubblica… la costituzione del gennaio 1848, data spontaneamente, giurata come irrevocabile colla massima solennità e finora mai mon abrogata ( sebbene violata quasi in ogni atto dal governo) non è mai esistita, non è che una mera finzione… l’amministrazione della giustizia non è scevra di corruzione, che comuni sono ì casi di abuso e di crudeltà fra i pubblici impiegati subordinati, che vi sono duramente puniti ì reati politici, senza che s’abbia molto riguardo alle forme della giustizia… incessante, sistematica, deliberata è la violazione d’ogni diritto, è la violazione di ogni legge umana scritta, è l’assoluta persecuzione della virtù allorchè è unita coll’intelligenza , è una persecuzione tanto estesa che niuna classe ne può essere allo schermo. Il governo è mosso da una feroce e crudele, non men che illegale ostilità contro tutto ciò che vive e si muove nella nazione, contro tutto ciò che può promuovere il progresso ed il miglioramento. Il governo vi calpesta orribilmente la religione pubblica colla sua notoria conculcazione d’ogni legge morale, sotto l’impulso dello spavento e della vendetta. Vi vediamo un’assoluta prostituzione dell’ordine giudiziario che è stato reso un trasparente recipiente delle più vili e grossolane calunnie che deliberatamente inventano i consiglieri della corona, collo scopo di distruggere la pace e la libertà e, con sentenze capitali , la vita delle persone più virtuose, oneste, intelligenti, illustri e raffinate dell’intera società. Un selvaggio e codardo sistema di morale, non men che fisica tortura, per mezzo di cui si fanno pronunziar sentenze da quelle depravate corti di giustizia… Il governo non si fonda sull’affezione dei popoli, ma sulla forza. Tra l’idea della libertà e quella dell’ordine non vi è più associazione, ma violento antagonismo. Il potere governativo, che si qualifica immagine di Dio sulla terra, agli occhi dell’immensa maggioranza del pubblico pensante appare come vestito dei più laidi vizi… La presente persecuzione è più grave che non le precedenti, e differisce da queste in quanto che è diretta agli uomini d’opinioni moderate… Si vuole ad ognì costo portar la povera natura umana agli estremi; si mettono in fermento le passioni feroci… Nella sola Napoli parecchie centinaia sono in questo momento accusati di delitto capitale… Il governo, di cuì importante membro è il prefetto di polizia, per mezzo degli agenti di questo dicastero, insegue e codia i cittadini, fa visite domiciliari, ordinariamente di notte, rovista le case, sequestra mobili e carte, tutto questo sotto pretesto di cercar armi; incarcera uomini senza alcun mandato, talvolta senza mostrare alcun ordine scritto. Non si dice poi mai quale sia la natura del reato. La prima cosa è arrestare e incarcerare, poi sequestrare e portar via libri, carte o checchè altro soccorra a quegli sciagurati e venali poliziotti. Si leggono quindi le lettere del prigione, non sì permette all’incolpato alcuna assistenza. nè il mezzo di consultare un avvocato. Per dir meglio, egli non e esaminato ma svillaneggiato nel modo più grossolano dai poliziotti. I prigioni, prima di essere giudicati, vengono ditenuti in carcere per parecchi mesi, per un anno, per due; ordinariamente il termine è più lungo. Non m’accadde mai d’udire che alcuno sia stato giudicato per motivo politico prima di 16 a 18 mesi di reclusione. Ho veduti degl’infelici attendere il giudizio dopo Venti mesi di prigione… Non dubito asserire, che fatto ogni sforzo per riuscire col mezzo di storte interpretazioni e di parziali produzioni di prove, a formulare un’accusa, se questa fallisce si ricorre allo sper- giuro ed alla calunnia. Degli sciagurati che sì trovano quasi in ogni terra, ma specialmente là ove il governo è il gran corruttore del popolo, dei mariuoli presti a vendere la libertà e la vita dei loro simili per danaro, e dar la loro anima giunta, vengono deliberatamente impiegati dal governo per deporre contro l’uomo che si vuole mandare in rovina. Le deposizioni sono generalmente fatte nel modo più rozzo e grossolano e portano con sè tante contraddizioni ed assurdità che stomaca l’udirle. Dire una prigione di Napoli è dire l’estremo del sucidume e dell’orrore. Ho veduto alcune di esse e vi dirò, mio lord, ciò che vi vidi; i medici d’ufficio non sì recavano a visitare i prigioni malati, ma i prigioni malati, colla morte sul viso, arrancavansi sulle scale di quel carnaio della Vicarìa, edifizio tenebroso così innmondo, così ributtante, che nessun medico consentirebbe per guadagno ad entrarvi. La minestra che forma l’elemento di sussistenza è così nauseabonda che senza un’estrema fame niuno può vincere la ripugnanza che produce. Non ebbi mezzo di assaggiarla. Le prigioni sono sporche come covili. Gli impiegati in esse, tranne di notte, non v’entràno quasi mai. Fuì deriso perchè leggevo con qualche attenzione deì pretesi regolamenti appiccati sopra una parete. Passeggiai fra una turba di 3 o 4 cento prigioni napolitani, assassini, ladri, delinquenti d’ogni specie, alcuni condannati, altri no e confusi cogli accusati politici. Nessuno portava catena; molte porte chiuse a chiavistello con inferriate tra mezzo, non eravi nulla a temere e usarono verso me, come a forestiero, molta cortesia. Essi formano una specie di società in cui l’autorità principale è quella dei gamorristi, gli uomini più famigerati per audacia di crimini. Questo sciame di esseri umani dormivano tutti in una lunga e bassa sala voltata, non illuminata che da una piccola inferriata ad un capo di essa. I prigioni politici potevano, pagando, aver il privilegio di una camera separata lungi dalla prima, ma non vera divisione fra loro. Darò a V. S. un altro saggio del trattamento che si usa a Napoli con uomini illegalmente arrestati e non ancora condannati. Dai 7 dicembre ai 3 febbraio Pironti, che prima era giudice, e fu trovato colpevole nell’ultimo dei mentovati giorni o in quel torno, passò le intere sue giornate e notti, tranne le ore ch’era menato in giudizio con due altri uomini, in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, sotto il livello del suolo di essa e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non potevano veder nulla. Entro questo brevissimo spazio Pironti e il suo compagno furono confinati per due mesi, e non ne uscirono pure per andare alla messa, o per altro motivo qualunque eccetto l’accennato. E ciò succedeva in Napoli ove per consenso universale, le cose vanno molto meglio che non in provincia. La presenza dei forestieri esercita qualche influenza sul governo; l’occhio della curiosità o dell’umanità penetra talora in questi bui recessi, mentre tutto è mistero nelle remote provincie o in quelle solitarie isole, le cuì pittoresche e fantastiche forme deliziano il passeggiero ignaro degli immensi patimenti ch’esse racchiudono. Questo, dico, vidi in Napoli e trattavasi di persona educata, d’un giureconsulto, d’un accusato, non d’un condannato..
La mattina di sabato 29 novembre del 1732, il territorio del Principato Ultra subì un dannoso terremoto. Una distinta relazione voluta dal Vicerè, definita “funesto avviso”, giunse a Napoli e attraverso i secoli, è giunta fino a noi. Si intervenne presto sui luoghi della sciagura per la cura dei sopravvissuti e il seppellimento dei morti affinché non rimanesse nell’aria il fetore dei cadaveri. Terremoto orribile che causò devastazione ovunque. L’epicentro, può ipotizzarsi la valle dell’Ufita, territorio di Carife e Guardia dei Lombardi con estensione a Mirabella, per il numero dei morti e la completa distruzione delle abitazioni.
“...Carifri dell’intutto spianata nelle abitazioni e chiese, il numero dei morti è di quattrocentosettanta, fra’ quali il proprio barone, la moglie, e famiglia, e centocinquanta i feriti… Mirabella è rimasta dell’intutto distrutta, non vedendosi altro che un mucchio di pietre, senza che neanche vi si discerna strada alcuna. Morti sono al numero di cinquecento e i feriti duecento… Guardia Lombarda tutta spianata, i morti sono cinquantadue e settanta feriti… a Trevico città sono state distrutte centodue case e tutte le restanti lesionate, i morti però sono soli tre e li feriti 20…Sant’Angelo dei Lombardi città è resa dell’intutto inabitabile, mentre le fabbriche in parte sono rovinate a terra e in parte aperte, tanto che il popolo tutto abita in campagna. Nella Chiesa Cattedrale non si può più officiare. Il Monistero de’ Minori conventuali è tutto precipitato e gli altri due de’ Riformati e Celestini lesionati e aperti, i morti però non sono stati più di cinque, ma moltissimi i feriti...”
Michelangelo scrive la lettera al padre mentre lavorava a dipingere la volta della Cappella Sistina. Il lavoro lo aveva intrapreso l’anno prima nel 1508 ed in una lettera di quell’anno fa una richiesta al padre: “…mi facci comperare o da Francesco Granacci o da qualche altro dipintore un’oncia di lacca o tanta quanta e’ pu avere per e’ detti danari, che sia la più bella che si trovi in Firenze; e se e’ non ve n’à, che sia una cosa bella, lasci stare…”. Nella lettera che si legge di seguito, Michelangelo personifica la paura, che se dovesse togliere qualcosa o far mancare da vivere al padre, garantisce egli come figlio. Da un anno, non ha ricevuto ancora un “Grosso”, un soldo, e non ne chiede perchè non andando avanti il lavoro, non sente di meritarseli. Il lavoro lo ritiene difficoltoso perchè non è la sua professione: egli è scultore, non pittore!
Roma, 27 di gennaio (1509)
A Lodovico di Buonarrota Simoni in Firenze
Carissimo padre. Io ò ricevuta oggi una vostra, la quale intendendo, ó avuto dispiacere assai. Dubito che voi non vi mettiate più timore o paura che non bisognia. Àrei caro che voi m’avisassi di quello che voi stimate che la vi possa fare, cioè del peggio, quando la facessi tutto suo sforzo. Non v’ò da dire altro. A me fa male che voi istiate in cotesta paura; ond’io vi conforto a prepararvi bene contro alle sua forze, con buon consiglio, e dipoi non vi pensar più: che quand’ella vi togliessi ciò che voi avete al mondo, non v’à a mancare da vivere e da star bene, quando non fussi altri che io. Però state di buona voglia. Io ancora sono in fantasia grande, perchè è già uno anno che io non ò avuto un grosso da questo Papa, e none chiego, perchè el lavoro mio non va inanzi i’modo che a me ne paia meritare. E questa è la difìcultà del lavoro, e ancora el non esser mia professione. E pur perdo el tempo mio sanza frutto. Idio m’aiuti. Se voi avete bisognio di danari, andate allo Spedalingo e fatevi dare per insino a quindici ducati, e avisatemi quello che vi resta. Di qua s’è partito a questi dì quello Iacopo dipintore che io fé’ venire qua; e perchè e’ s’è doluto qua de’ casi mia, stimo che e’ si dorrà ancora costà. Fate orechi di mercatanti e basta: perchè lui à mille torti e àre’mi grandemente a doler di lui. Fate vista di non vedere. Dite a Buonarroto che io gli risponderò un’ altra volta.
Alessandro fu scrittore e letterato, Pietro fu filosofo, economista e scrittore. Il loro fratello minore Giovanni fu il padre naturale di Alessandro Manzoni. In una delle tante lettere scritte al fratello, Alessandro racconta di trovarsi a Parigi insieme a Cesare Beccaria (nonno di manzoni) dove incontra altro italiano verso cui traspare un accenno di invidiosa stima, si tratta dell’abate Galiani, economista e letterato napoletano.
“…Beccaria ha l’alto tuono del ministero filosofico. Egli è un pazzo come non ne conosco nessuno. Se ci fossi io, abbasserebbe forse un poco la coda di pavone. Non credere poi fino a un certo segno la figura che ha fatto in Parigi. Ti torno a dire ch’era sul decadere, come di tutto avvenir suole a Parigi. Quand’egli partì, era ritornato da Napoli, dov’era andato per qualche tempo, l’abate Galiani, secretario di ambasciata di quella Corte. Questo abate, che ha cento spiriti e neppure un quarto di cuore, è l’uomo alla moda di Parigi, è ricercato, è conosciuto da per tutto. Si sapeva ch’ei ritornava appena che cominciò a porsi in viaggio, e se ne promulgava la fausta novella giubilando. Io e Beccaria ci siamo trovati a pranzo con lui da madama Geoffrin, e ti assicuro che l’abate brillò sempre, e niente Beccaria, a cui ha dato lodi molto parche. Il ritorno di quest’abate, per cui sono pazzi, avrebbe facilmente rivolto l’entusiasmo di Beccaria su di lui. Quest’è certo che Galiani andava in tutte le nostre compagnie, e dov’egli è, tutti taciono, e lo lasciano brillare (1). Beccaria avrebbe dovuto fare come li altri la parte di uditore, come l’ha fatta all’occasione…”
(1) “Donne galanti, filosofi disputanti, smania di conversare, di motteggiare, e di prevalere per brio ed acume d’ingegno, tutto era accomodato all’umore del Galiani”. Basta leggere i due volumi delle lettere a madame d’Epinay per capire come i costumi parigini, regnando Luigi XV, andassero a verso del Galiani. Molti libri di quel tempo parlano del charmant abbè. Quelli di Diderot, l’immensa Corrispondenza di Grimm, le Memorie di Suard scritte da Dorat, quelle di Marmontel, li scritti dell’abbate Mercier di S. Làjier, di Vauvilliers e tant’altri mostrano quanto Galiani brillasse nei circoli e quanto il suo spirito li rallegrasse, tanto che l’ingegnosa duchessa di Choiseul, moglie del ministro, giunse fino a dire “che in Francia incontrarsi il brio dell’ingegno in picciola moneta, e in Italia in verghe d’oro”.