“Diamanti”: un film che brilla tra la fine del 2024 e il nuovo anno

C’è un film che, nel vederlo al cinema nei primi giorni di inizio anno,  sembra confondere nel senso di stupore e di sentimentalismo che si provano,  tanto che non si sa poi se ispirati dalla pellicola oppure dalla atmosfera che ogni capodanno porta con sé.

Ozpetek si arma di un cast di attrici strepitose, dalla fascinosa Ranieri alla Scalera con le sue mimiche facciali, e sfodera inquadrature quasi tutte a mezzo busto per dare fuoco alle espressioni del viso, e ci riesce: il film parla con le parole ma sopratutto con gli occhi (parte corporea eletta a maggiore carico di femminilità) delle sue protagoniste.

Un film che brilla e che si incentra su figure -tutte femminili- che brillano, non può che avere il titolo di Diamanti.

Perché, oltre alle citate, tante altre, e brave, sono le attrici, la raffinata Milena Vukotic, e Lunetta Savino per esempio -guarda caso il meridionalismo nella espressività trionfa- che mostrano le proprie vite ruotando attorno ad un atelier, luogo già di per se’ richiamante il vezzo, la vanità, l’estetica del corpo, che piacevolmente devono caratterizzare tutte le donne. 

E non può mancare l’esperienza di una di loro, brutale, scellerata, raccapricciante vita di vittima del marito violento. Si prelude al femminicidio ma il finale salva, mostrando una figura, non a caso interpretata da Elena Sofia Ricci, vestita di un (uno dei tanti anche loro protagonisti) abito che sembra davvero luccicare come un diamante, identificata nella madre del regista, portando con sé il ricordo e la memoria, che, alla fine, sono tutto ciò che conta. 

LETTERE D’UN GIOVINE ITALIANO. Raccolte e pubblicate nel 1834.

La lettera che segue, rivolta da un giovane all’amico, sottoliniea il disprezzo che egli prova verso il gioco, verso gli intrighi, verso l’adulazione interessata osservati nella città in cui vive. Allontanandosi da essa e da questi invasi, si reca nelle campagne dove, da solitario, apprezza la vita semplice dei contadini, la purezza dei sentimenti ed il lavoro onesto, l’amore nei contatti umani e il rispetto dei luoghi sacri. Sembra dire che nelle campagne si vive la vita costruttiva, nelle città si vive la perdizione. Col passare del tempo le generazioni si sono rivolte ai piaceri effimeri… alle passaggiate senza senso, alle corsette lungo i cigli delle strade… mentre le terre incolte stanno ad osservarle.

Caro amico, buon per me che sono persuaso che la cabala, l’intrigo e il bassamente adulare mai trionfino sui giusti diritti e sulla virtù. Ho veduto certuni strappar dalle mani gl’impieghi a cert’altri, cui erano per giustizia dovuti. Se un ladrone ti spoglia, puoi almeno chiamarlo animoso perchè s’espoǹe a un cimento; ma come nomerai certi stupidi onde ogn’ingeguo consiste nell’ostinata cecità della sorte, che li solleva come la feccia che galleggia sull’acqua? Questi stupidi che trionfano d’averti superato coll’avvilirsi di continuo a contentare il capriccio di chi comanda; col rampicarsi per le scale del grande, e prostrandosi incensarlo poco meno del disgraziato che implora la vita. Mi si affacciano alla mente quegli anni in cui i contadini ritornando dai campi erano attorniati dai figliuoletti e nipotini che tutti ilari loro saltavano intorno, chi stringendo lor le ginocchia, chi prendendo loro la mano; e parevami vedere alcuno di essi già vecchio pigliar di peso un bambino, porselo in collo, ed inondarlo di baci. Volgendo quindi il pensiero sopra le madri, io le osservava preparare la cena, e vedeva sedersi a tavola ognuno, e ognuno guardarsi con iscambievole amore. Li seguiva poi quando essi uscivano la mattina coi bovi aggiogati, e quando il giorno lavoravano le terre sempre in pace, e forse più contenti di molti altri mortali. E nei giorni festivi venivano colle loro famiglie, e si sedevano sopra questi murelli, e attendevano il suono della campana che li chiamasse agli uffizj divini; e mentre il parroco si preparava per la sacra funzione, se ne stavano fra loro parlando, tenendo i teneri fanciullini per mano, od in braccio, finchè al primo tocco, cavandosi tutti il cappello, entravano in chiesa a pregare per la felicità de’ lor cari, ed implorare il frutto de’ loro sudori. Così io mi pasceva di malinconiche fantasie, tutto commosso di tenerezza e rammarico. Pure essi hanno avuto la consolazione di riposare nella terra dei loro padri. Oh amico! questi solitarj passeggi che ripeto sovente nelle campagne più lontane dalla città, d’onde poi nascono tali malinconiche fantasie, mi sono necessarj davvero; essi divertono la mia ira, e la calmano, nell’atto che la vista dei piaceri la rende più intensa, perchè il sentimento de’ mali mi vieta, per quanto io faccia forza a me stesso, di parteciparne cogli altri. 21 Novembre 1816.

Tre ciotole: il testamento di Michela Murgia

Un libro postumo sembra sempre avere un valore aggiunto.
Indiscutibile rimane la spiccata verve letteraria della scrittrice, l’ironia pungente anche a volte amara, il registro scorrevole e piacevole, ma c’è forse una nota dolente, ed e’ nei riferimenti religiosi, per esempio con la citazione di un’intera preghiera, che sanno di una sfida al timore di Dio.
D’altro canto, alcuni contenuti sono molto importanti e descritti con coraggio, lo stesso con il quale viene affrontata la malattia oncologica terminale, che pure viene raccontata, con una naturalezza quasi irreale, e con una dignitosa pietà di se’, che ogni medico dovrebbe leggere almeno una volta. Per capire chi si guarda ogni giorno negli occhi e cosa nascondono gli occhi dei pazienti.
E poi ci sono tanti altri riferimenti a realtà moderne: la pandemia da Covid, la vigliaccheria dell’uomo che si stanca della propria donna dopo anni di vita di coppia destinandosi ad incontrare molte controfigure di lei, l’omosessualità, e tante altre situazioni anche parafiliche ma molto più comuni di quanto si possa immaginare.
Infine, nei ringraziamenti, c’è forse la parola/ chiave, il testamento della scrittrice, la quale si assicura che il libro venga pubblicato, e cioè che le si dia il Cambio. Una parola con la lettera iniziale maiuscola, intenzionalmente, ad indicare il valore della scrittura, ad indicare il valore della vita, della continuità, e che forse contiene anche un (inconsapevole?) riferimento al cambio/vita, dal corpo all’anima.

Cronaca d’altri tempi

Una meticolosa descrizione dei danni causati da un fulmine, che colpisce in pieno il campanile della Chiesa di San Giovanni Battista di Carife (AV), non quello attuale ma il vecchio, ubicato ove attualmente è la canonica, ci fa rivivere il momento di paura e di preghiera vissuto dai presenti. Un grande osservatore si palesa l’anonimo autore ed inatteso il ritrovamento del documento dattiloscritto, piegato con cura e posto fra le pagine di un testo dell’archivio familiare di Stefano Melina. Lo scritto si commenta da solo; l’autore ci prende per mano, ci introduce nella Chiesa e ci fa assistere atterriti all’evento, quindi ci conforta assicurandoci l’intervento della Vergine.

Il giorno 23 marzo del 1888 alle ore 15 scoppiò una folgore sulla vetta del campanile ove si rattrovava una statua di legno di San Rocco, colle ablazioni del quale erano stati eseguiti i restauri fin dal 1854. Quello scoppio ridusse in vari pezzi quel simulacro, essendosi rinvenuto una parte della testa nella frana, altra parte fu rritrovata innanzi alla chiesa dei soppressi Conventuali di San Francesco ove esiste la confraternita di Maria Santissima delle Grazie e di San Michele Arcangelo, altro pezzo lungo la piazza e uccise due animali setolosi; s’introdusse all’interno del campanile, lesionò la parete interna verso la chiesa, scantonando molti frantumi di pietre, di mattoni e di calcine vicino le due cantonate; spezzò due grosse mezzine di legno querce che erano nel mezzo del pavimento ove si fa la forza per sonare le campane; in un modo misterioso è uscito di là, si è attaccato al corniciato della Chiesa, lo ha scantonato in un punto; indi scantonando la parte fuori di una buca di andito che comunicava nell’interno della chiesa, per questo si è introdotto in essa, precisamente alla parte dell’altare del Santissimo Rosario, ha scantonato in un punto il corniciato a stucco, che circonda il bel quadro della gran Madre di Dio, ha sbalzato quel punto, ove è dipinto un Angelo a terra, si è stracciata la tela nel mezzo, ha sbalzato fino all’altare del Santissimo Sacramento parte del corniciato di legno indorato; poi ha percorso tutto il corniciato di legno indorato della Vergine, distruggendo l’indoratura, ha scantonato ai due fianchi, ove erano i quadri della Madonna del Buon Consiglio, e dell’apparizione miracolosa della saletta, spogliando pure le cornici dall’indoratura; l’intero quadro era coperto da un velo, questo è stato acceso dal fuoco elettrico e si è sviluppata la fiamma, per estinguersi, si obbligò il sagrestano a salire sull’altare, benché stordito e soverchiato dalla paura, pure strappò il velo, estinse la fiamma, ma il timore non fini. Era un finimondo!!! Non si può tacere che lo scoppio del tuono fa sentire il suo colpo più di quello di un cannone!!! Era giorno del mercordi delle quattro tempora della Pentecoste, si doveva sonare la campana per la messa conventuale; il sagristano accompagnato a due garzonetti per animare il suono della campana, prese licenza dall’Abate a tanto eseguire; questi dispose di attendersi. In chiesa erano presenti l’Abate Don Elziario de Angelis, il Canonico Lungarella, il Can. Santoro ed un tale Giovanni D’Ettorre, vecchiarello zoppo che stava seduto allo scanno al fianco destro dell’Altare del Santissimo Rosario. Era pure in Chiesa il Sacerdote Vitantonio Carsillo de Minori Riformati ritornato da Cattaro della Dalmazia, come Missionario Apostolico per rivedere i suoi dopo 25 anni di assenza. Tutti noi fummo presi dallo più terribile spavento, vi accorse una folla di popolo, invocavamo l’aiuto di Maria Santissima e tutti fummo salvi pel suo potentissimo patrocinio. Miracolo specchiato che Maria Santissima ci liberò dalla morte”.

Svelamento delle restaurate statue seicentesche Patronali  presso il Palazzo Galiani Pironti a San Pietro a Resicco.

La novena che prelude alla festività per la ricorrenza dei Santi Patroni Pietro e Paolo del 29 giugno ha avuto inizio, nella frazione San pietro di Montoro (Av), con un evento caratterizzato da uno speciale  connubio di religiosità ed arte. Ideazione sentita e voluta dalla comunità pastorale di Montoro, dal comitato della festa patronale, dal priore Gerardo Russo e dal veterano Vito Donniacuo. Scenario: il cortile del palazzo Galiani Pironti, dimora storica delle famose dinastie rivoluzionarie e risorgimentali e sede di ricercati eventi culturali, divenuto, come detto dal parroco montorese, don Domenico, citando un passo del Vangelo, luogo in cui “sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20).L’occasione è stata il restauro, ad opera della ditta Nova Ars di Cesinali (Av), delle antiche statue seicentesche, scolpite probabilmente da Giacomo Colombo (1663-1730) o dalla sua scuola, ritraenti i due Apostoli principi della Chiesa. Il parroco ha precisato che il restauro, il terzo di altri due precedenti avvenuti tempo addietro, ha seguito sapientemente un metodo conservativo, limitandosi in maniera efficace a ripulire le statue dai segni del tempo e a ravvivare i colori, riprendendo gli originari, sia delle vesti che dell’incarnato. Da notare, a parere di chi scrive, con ammissione di deformazione professionale, come il restauro abbia davvero “ravvivato” i busti dei santi, giacché sono più evidenti le forme dei reticoli dei vasi sanguigni  sulle mani e sul collo, conferendo una potenza vitale e animata, con l’impressione reale dell’atteggiamento veemente del parlare e anche con foga, vigore, con fede. Dopo lo svelamento delle icone, rimaste per le due notti precedenti  nel Palazzo Galiani Pironti (una delle due basi processionali lignee fu donata alla Chiesa  da un prelato appartenente alla famiglia, tant’è che in corrispondenza di uno dei fregi si legge: “A.D. del Barone G. Galiani 1875”)  in attesa di fare ritorno in Chiesa, e dopo un momento di preghiera, la parola è passata a don Bartolomeo, parroco di Solofra, il quale ha voluto fare delle riflessioni sul valore delle statue nella religiosità cristiana,  affinché non si cada nella idolatria e si percepisca invece  il messaggio superiore delle immagini. Nello specifico, il sacerdote ha osservato come le due statue  sono accomunate dalla presenza di un libro; ciò ricalca il valore della Parola, del Vangelo, e mentre San Paolo è raffigurato nell’atteggiamento di   indicare con l’indice destro una pagina sulla quale è scritto in greco un passo da Lui stesso citato e riferito al suo esempio di battaglia non persecutoria ma di ricerca di verità  (“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”), San Pietro tiene il libro con le dita tra le pagine quasi a mantenere un segno, che può rappresentare il momento fermo della nostra vita,  che lascia immaginare ad ognuno di noi quale sia la pagina di cui si mantiene il segno, mentre con  l’altra mano il santo è rappresentato anch’egli con l’indice puntato ma questa volta verso l’alto, verso il Cielo, la meta a cui il vero cristiano, pellegrino sulla terra, deve mirare.