Il Pinto Mood a Montoro (Av): il Direttore del DIPSUM dell’Università di Fisciano presenta il nuovo libro “Il Brigante e il Generale“ in prosieguo di “La guerra per il Mezzogiorno“.

L’altra sera, si è svolto un evento culturale, a Montoro (Av), nella frazione San Pietro, all‘insegna della presentazione del libro “Il brigante e il generale“ (Laterza ed.), fresco di premio Acqui Storia 2023 per la sezione scientifica, scritto dal prof. Carmine Pinto, Direttore del Dipartimento degli Studi Umanistici dell’Università di Fisciano. É un libro di storia e, già per questo suo valore intrinseco, insegna, come da locuzione degli antichi “historia magistra vitae“, ma  il volume ha anche un suo plusvalore, quello di attenersi, nella narrazione, esclusivamente a fatti accertati attraverso la ricerca,  l’analisi e lo studio di fonti documentali – in più occasioni l’autore l’ha definito “un viaggio tra i luoghi e  tra le carte“ – pervenendo anche alla risoluzione di diatribe storiografiche. Insomma, un prodotto artistico derivato da impegno, metodo scientifico, e sicuramente passione. Ed è un libro che si fa leggere per una nuova scrittura narrativa che lo differenzia dalla precedente opera dello stesso autore, che è un saggio, sempre edito da Laterza e pluripremiato, dal titolo “La guerra per il mezzogiorno” (2019), ma in linea di continuità con quest’ultimo, se non altro per le similari immagini di copertina tratte dalle pitture dell’8ooesco Giovanni Fattori di cui sono conosciute le “scene brigantesche” richiamanti la tematica principe di entrambi i volumi, e, mentre il saggio si sviluppa come una panoramica estesa, il secondo appare come uno zoom su persone e luoghi. Nello specifico, l’ambientazione è nell’Italia post unitaria, periodo di transizione e di crisi dal quale scaturirà la Nazione; attraverso la descrizione tridimensionale di due personaggi antitetici, e dei posti in cui sono vissuti, il meridione di Italia, l’autore fa luce su un fenomeno, una questione sociale, il brigantaggio, da taluni tramandato come una sorta di eroismo, ma che la scrittura di Pinto restituisce nella sua reale dimensione di vero fenomeno criminale; si ricordi che l’autore è anche, tra le altre cose, studioso di storia militare e di guerre civili. E la scorsa serata, a Montoro, hanno partecipato all’evento il senatore Andrea De Simone, il quale con piacere ha ricordato l’amicizia decennale che lo lega all’autore e ha citato un suo testo centrato sui costumi culinari dell‘800 la cui prefazione è del prof. Pinto; c’è stata, poi, la manifestazione di condivisione del sindaco di Montoro, Girolamo Giaquinto, puntualizzando il valore della verità non contaminata da menzogna e quindi tramandata nella sua assolutezza; poi, si sono sviluppate le riflessioni di lettura del medico legale, Elena Picciocchi, discendente della famiglia Pironti-Galiani a cui appartiene la location dell‘evento, la quale ha richiamato alla memoria quanto tracciato dal suo bisnonno, Aurelio Galiani, uno dei primi sindaci del territorio e già anni addietro sostenitore della Montoro unita, il quale, in uno dei suoi contributi, si espresse con terminologie molto simili a quelle usate dall’autore del libro presentato, in merito alla distinzione tra mistificazione e verità storica: come il Pinto nel suo testo afferma: “il mito non trasfiguri la personalità“, così il Galiani, riferendosi al fenomeno infestante dei briganti criminali, dice “dal campo leggendario scendiamo in un altro di effettiva cronaca nera, piena di ferocia e di sangue“ (cit. da Montoro nella storia e nel folklore, 1990). Quindi, la parola è stata consegnata al protagonista della serata: l’autore, panomaricando sulla trama, ha centralizzato il suo discorso sulla finalità dell’opera che è quella del definire “come si fa una Nazione“, attualizzando e ricordando che il pensiero politico non può prescindere da quanto già avvenuto nel passato, da una visione obiettiva di tutte le variabili e delle inclinazioni differenti e anche contrarie, e da una correttezza di verità, nonchè da prontezza nel fronteggiare le incognite. Hanno fatto da cornice all’evento, in questa sera di fine estate, i  giardini del palazzo Galiani-Pironti dalle geometrie settecentesche e dalle piante secolari rimaste intatte, ove  si crea e si sente un feedback, un interscambio, un richiamo, e sul quale è sceso il tramonto nel corso dell’evento, come notato e detto dall’autore per inciso nel suo discorso: “questo tramonto che ha reso ancora più intensa questa storia“ .

Delle donne Greche: dottrina degli antichi intorno alla felicita’.

Percorso anni addietro il territorio antico della Grecia, dell’isola di Creta, ove gli occhi si posarono sugli scavi del palazzo di Cnosso, di civiltà Minoica e qui parliamo di 2.000 anni a.C. Civiltà riconosciuta come la prima nel Mediterraneo: attratto dalla lettura, mi sono soffermato su una lettera di Nicola Vivenzio inviata a Donna Elena Dell’Andoglietta. Chi sono costoro? Vivenzio nacque a Nola, si addottorò in diritto e fu giudice della Vicaria nella capitale del Regno delle due Sicilie; esercitò dal 1783 al 1792 (anno della sua morte). Dell’Andoglietta, nata nel Salento nel 1780, divenuta avvocata di fama, doveva essere fanciulla quando ricevette la lettera del Vivenzio, amico di famiglia. Perchè questa lettera? Perchè si parla di donne greche e del loro valore come esempio di virtù.

“Alla Signora D. Elena Dell’Andoglietta

Madamigella.

Vi parlai dei due opuscoli di Plutarco che voi bramate tanto di leggere; l’uno, degli apostegmi delle donne Spartane; I’altro, delle donne illustri. Il carattere delle Spartane sembrerà certo superiore assai alla comune condizione delle donne; ma questo era l’effetto della educazione che nelle republiche Greche si dava loro; non essendovi stato alcun popolo, che avesse avuto leggi migliori per sostener l’onestà e la virtù fra le donne. In Isparta e nell’altre antiche republiche Greche, gli uomini erano educati nell’amor della patria, e nel valore; così pure que’ savii legislatori, riguardando la perdita del costume nelle donne, come uno de’ più gravi mali dello stato, posero ogni cura nell’ educarle per modo, che lontane dalla mollezza e dalla vanità, destassero negli uomini la loro ammirazione, con esser di esempio ad opere virtuose. Un Greco diceva che le donne viver dovessero in si riserbato modo, che neppure della loro virtù ne pervenisse notizia alcuna; o che fossero di tali egregi costumi, e lodevole vita, che ognuno venisse costretto parlarne con riverenza, ed onore. Omero descrive gli opposti caratteri di Penelope e di Elena, due donne celebrate e famose nell’antichità. Elena la più bella fra tutte le Greche dell’età sua, e adorna di tutti i pregi e le grazie della natura, ma vana e leggiera, era moglie di Menelao Re di Sparta. Paride figlio di Priamo, Re di Troia, preso dalla bellezza di una tal donna, fa riceversi per finte ragioni come ospite in casa di Menelao, scoprendo ad Elena l’amor suo: ed ella, mentre che ascolta con piacere le voci di questo ardito ed insidioso amante, se ne compiace, e fugge con lui. I Greci per vendicar tanta ingiuria, unitisi insieme, dopo una lunga e feroce guerra e dopo tanti memorabili avvenimenti, distruggono infine la casa di Priamo, e Troia; e il nome di Eiena rimane in abbominazione fra’ Greci egualmente, che fra’ Trojani. Penelope, moglie di Ulisse Re d’ Itaca, giovane e bella, saggia e virtuosa, rimane sola col piccolo Telemaco suo figliuolo, mentre che Ulisse è costretto di seguire ancor egli i Greci nella guerra di Troia. Molti giovani divenuti amanti di Penelope cercano di sedurla ed ella elude per lungo tempo con ingegnosi e prudenti modi, le importune richieste di tanti amanti; fino a che, dopo molti anni, tornato Ulisse, gode con lui e con Telemaco tranquilla pace, lodata da tutti, ed ammirata e il suo nome resta poi celebrato sempre fra le donne di Grecia, e ricordato, come d’illustre esempio, che imitar si dovesse da loro. Con tali piacevoli immagini, Omero oppone il vizio alla virtù, , e fa comprendere per sensibili modi i tristi effetti, che seguono la leggerezza, e la vanità di una donna. La stessa educazione delle donne greche si dava alle loro donne da’ nostri antichi Sanniti. Essi aveanò in costume di adunare ogni anno i loro giovani, giudicando quale fra loro fosse il primo per lo valore, e per lodevoli azioni, e così gli altri appresso. Colui che giudicato veniva il migliore fra tutti, scieglieva in moglie la giovane che egli volesse; poi il secondo, e gli altri dopo. E quale incitamento non era questo per le giovani Sannite di educarsi fra semplici, e gravi maniere, che i Sanniti insieme con la bellezza, amavano nelle donne per essere scelte poi dal migliore fra loro? Così presso gli antichi Romani, finché i costumi furono severi, si trovavano quelle donne ammirate fra loro: ma quando in Roma un lusso prodigioso accrebbe l’idea de’ piaceri, estinguendovi ogni virtù, i costumi e le idee furon del tutto pervertiti e corrotti . Or siccome le donne, quasi tutte, seguono sempre il carattere più rilasciato della Nazione in cui vivono, si veggono tanto occupate della lor vanità, ed intente solo nel ricercar nuove e studiate maniere di ornarsi per accrescere la loro beltà e renderla più piacevole ad un maggior numero di adoratori che arrestandosi a contemplarle, debbano tutti esser presi dalla bellezza, e da’ vezzi loro. Questa tal vanità di piacere a molti, e farsi ammirare, rende familiari alle donne alcune idee, che possono produrre in loro funesti effetti; essendo difficile assai che una donna, la quale si espone perpetuamente alla seduzione di un gran numero di folli adoratori, possa serbare intera la virtù sua. Voi mi chiedete di sapere qual sia tra’ filosofi Greci fl migliore che abbia ragionato della felicità. Alcuni dissero che il viver conforme alla natura fosse la vera felicità ed altri, che solo i Savi potevano esser felici, mentre il comune degli uomini ha sempre riposta la sua felicità nel piacere, nelle ricchezze o nel soprastare agli altri per dignità e per onore e passioni. Ma i piaceri di una vita voluttuosa corrompono il corpo, illanguidiscono l’animo e rendono gli uomini del tutto inadatti ad opere virtuose. Le ricchezze non producono per se stesse alcuna felicità: e l’affannosa cura di accumularle, ed il timore di perderle, destano sempre nell’ animo di chi le possiede una perpetua perturbazione. Gli onori, e le dignità, che pure sono menati dalla volubile mano della fortuna, non rendono gli uomini nè felici, nè migliori, anzi se prima il costume loro era corrotto; per gli onori, e per le dignità che acquistano nell’ ordine civile, diventano maggiormente perversi, ed odiosi. Vi sarà dunque nella vita umana alcuna felicità? Per ora vi dico solo che all’uomo saggio felicità può venir sol dal cielo.”

Da “Lettere scientifiche di vario argomento di Nicola Vivezio, 1812”.