(Raccolte di prose e lettere scritte nel secolo XVIII, Vol II, Milano MDCCCXXX)
Diario di un breve viaggio di Anton Maria Salvini che ci racconta della disavventura sopravvenuta ed inattesa per un temporale e di come ricorse riparo. La buona compagnia di un Abate, il discorrere insieme, la lettura di libri greci, un buon fuoco, una buona cena, un buon letto ed un “saporito” riposo, concludono il racconto. Le immagini che la lettura ci trasmette, rasserenano i nostri temporali, i travagli dei nostri pensieri così diversi da quelli di tre secoli fa.
“Uliveto, 27 Novembre 1707.
A tredici ore e mezzo partimmo l’Abate Torello Franzese e io, jer l’altro, e facemmo la strada discorrendo di cento belle cose, perchè questo Abate è un signore virtuoso e intendente. Passato Montespertoli di due miglia, venne un temporale così fiero che finì di guastare le strade già rotte che non potevano i cavalli reggere, nè tenere i piedi in terra: onde ci convenne smontare di calesso sempre coll’acqua addosso. Seguitavo il rigo dell’acqua, e sguazzavo senza suggezione, anzi per la necessità, perchè andando per le prode, battei due o tre volte in terra; ma non mi feci male perchè si cascava nel morbido. Arrivammo così fradici a un fiumiciattolo cattivo, che si domanda la Pesciola, il quale passammo sulle spalle di due contadini, i quali per carità ci erano corsi dietro gridando che avevamo di più smarrito di non so quanti passi la strada; e se non ci ajutavano questi buon uomini, noi non saremmo ritornati in via. il mio compagno pati assai, perchè i bottoncini piccoli, coi quali usano gli Abati Francesi abbottonarsi, gl’infragnevano il petto. Poi per tragetti e per campi, coll’acqua addosso, grondando per tutto, ci conducemmo vicino a un fossato, il quale era tanto gonfio dalla piena che non si poteva passare; e un buono contadino, che io conoscevo, ci venne incontro scalzo e con stanga appuntata di ferro per guadare il fossato; ma non si potendo passare, fummo obbligati a fermarci in casa del contadino tutto quel giorno, aspettando che l’acqua scemasse. Il mio compagno, che aveva più sonno che fame, andò a riposare, dopo essere stato al fuoco a riaversi. Il contadino mi levò tutti i panni, mi diede suoi calzeroni di bambagia,
sue scarpe, suoi calzoni e sua giubba assai bella e buona per contadino, e suo berretto; stando così due giorni in questo a abito, aspettando che i miei panni fussero rasciugati. E finalmente a un’ora di notte con torce di campagna, cioè con covoni di paglia accesi, arrivammo al fossato, ove l’acqua era calata, e arrivava poco sopra il ginocchio; e sulle spalle del buon contadino, che era grande e forte, valicai il fossato. E l’avere mangiato un poco a casa del contadino, che mi favori d’una buona frittata, d’un pane di grano con una buona caciuola ristoratomi, e con un buono suo vin nuovo confortatomi, tutto questo mi servì per passare con più lestezza e con più cuore il fossato. Poi fu facil la strada. E a un’ora e mezzo, o piuttosto a due ore di notte rifiniti arrivammo alla villa, nella quale con buon fuoco e con buona cena e con buon letto prendemmo, dopo tanto travaglio e fatica, un saporito riposo. Qui mi ritrovo sempre in casa pel cattivo tempo che seguita; ma non manca conversazione e ci spassiamo colla lettura di libri greci; anzi desidererebbe quassù quel mio Teocrito, che non mi avveddi di portar meco. Vi saluto.”