Lettera dell’onorevole W.E. Gladstone a Lord Aberden sui Processi di Stato del Regno di Napoli (parte II).

La lettera che Gladstone scrive a leberden, contiene anche la dettagliata descrizione di come e quanti artifizi vennero creati ad arte per ottenere la condanna di Carlo Poerio; Il sistema è da intendersi applicato anche per gli altri accusati che furono rinchiusi nel carcere borbonico di Montefusco nel 1852 (da leggere le memorie del Castromediano, del Nisco e del Pironti che raccontarono il periodo carcerario). Gladstone, nella lettera, tratta del Poerio, lo descrive come compita persona, eloquente oratore, di specchiata onestà, ministro della Corona sotto la costituzione, occupava uno dei gradi più distinti nel Parlamento. E’ lo stesso Poerio che racconta del suo arresto quando si trova al cospetto dei giudici l’8 febbraio 1850, presente Gladstone che appunta tutto. Alcuni personaggi citati sono riportati in neretto per imprimerli permanentemente nella memoria del lettore.

“La sera prima dell’arresto, al dì 18 luglio 1849, fu, da una persona sconosciuta, lasciata in casa del Poerio, una lettera concepita in questi termini: « Fuggite, e fuggite prontamente. Voi siete tradito, la vostra corrispondenza col marchese Dragonetti è già in mano del governo. Uno che v’ama assai». S’egli fosse fuggito avrebbe somministrato una prova di colpa molto ampia, ma egli conscio di tali cose, non fuggì, e inoltre non esisteva corrispondenza. Ai 19, intorno alle quattro pomeridiane, si presentarono, con falso titolo, due persone alla porta e gli annunziarono ch’egli era arrestato in virtù di un’ordine verbale del prefetto di polizia Peccheneda. Invano egli protesta, la sua casa fu messa sossopra ed egli cacciato in solitaria prigione. Domandò d’essere esaminato e conoscere la causa del suo arresto entro ventiquattr’ore, secondo la legge, ma indarno. Al sesto giorno finalmente fu tradotto innanzi al commissario Maddaloni e gli fu posta in mano una lettera col sigillo rotto indirizzata a lui, e gli fu detto essere del marchese Dragonetti, ma che la *coperta era stata aperta per isbaglio da un ufficiale di polizia (*la coperta di una lettera era un foglio piegato che la conteneva all’interno), il quale per caso aveva lo stesso cognome e che nel veder la lettera racchiusa dentro, l’aveva consegnata alle autorità. Si desiderò che il Poerio l’aprisse e ciò egli fece in presenza del commissario. Nulla poteva essere più artificioso che l’orditura di quest’affare. Ma notate il seguito. L’argomento della lettera implicava alto tradimento; vi si annunziava un’invasione di Garibaldi, si fissava un abboccamento con Mazzini, si alludeva ad una corrispondenza con lord Palmerston (il cui nome era goffamente storpiato) che prometteva aiuto per la prossima rivoluzione. «Vidi subito, dice il Poerio, che si era vilmente contraffatta la scrittura di Dragonetti, e ciò dissi osservando che la prova della falsità era più evidente che non qualunque cumulo di prove materali». Il Dragonetti era uno dei più compiti Italiani, mentrecchè questa lettera era piena zeppa di scerpelloni, tanto di grammatica che d’ortografia. Altre assurdità nom sono pur degne di venir menzionate, quali erano la segnatura in disteso del nome, cognome e titolo, e la trasmissione di una lettera di quel genere per la posta ordinaria di Napoli. Aveva il Poerio fra le sue carte, delle lettere del Dragonetti sulla cui autenticità non poteva cader dubbio; esse furono addotte e paragonate con quella, e la falsità rimase tosto chiarita. Le carte di Poerio non fornivano materia di accusa. Era perciò necessario inventar nuovamente o per dir meglio, lavorare sulle falsità già preparate. Un tal Jervolino, uccellatore frustrato, di bassi impieghi, era stato scelto pel duplice uffizio di spia e di spergiuro. Secondo la deposizione di costui, il Poerio venne accusato di essere fra i capi di una setta repubblicana detta dell’Unità Italiana e dell’intenzione di uccidere il re. Poerio domandò d’essere confrontato coll’accusatore ma le autorità non vollero permettere questo confronto. Fu tradotto di prigione in prigione e per due mesi non si permise di vederlo a sua madre, unica sua prossima congiunta. Così scorsero sette od otto mesi senza che egli sapesse cosa alcuna delle prove che s’adducevano contro lui e per opera di chì. In questo, venne a lui il sig. Antonio dei duchi di San Vito a dirgli che il governo sapeva tutto ma gli farebbe grazia della vita se confessava. Nel processo ei domandò ai giudici che si esaminasse il San Vito, ma naturalmente non si fece. Oltre a cìò il signor Peccheneda stesso, direttore di polizia, e ministro di gabinetto del re, andò spesse volte alla prigione, interrogò diversi carcerati senza testimoni. Uno di questi fu il Caraffaa cuiassicurò che il suo affare verrebbe tosto accomodato, purchè testimoniasse che il Poerio conosceva alcuni biglietti rivoluzionari. Non avendo ottenuto quanto richiesto, prese comiato dal Caraffa con queste parole: Benissimo signore, voi volete la vostra rovina, tal sia di voi. L’accusa del Jervolino formò la sola base reale del processo e condanna di Poerio. Affermava il Jervolino che non avendo potuto ottenere dal Poerio un impiego, lo richiese di farlo ricevere nella setta dell’Unita italiana, che questi lo mandò ad un certo Atanasio, il quale doveva menarlo a un altro, detto Nisco, onde potesse venir ammesso; che il Nisco lo mandò ad un terzo, detto Ambrosio che l’iniziò. Non si ricordava né delle forme, nè del giuramento della setta. Del certificato o diploma o delle ragunate, egli non sapeva nulla. Jervolino poco prima era un mendicante, ora compariva bene in arnese e in buono stato. Il Poerio sosteneva che un certo arciprete aveva dichiarato che il Jervolino aveagli detto di avere una pensione di dodici ducati al mese dal governo per le accuse che faceva al Poerio. Venne esaminato l’arciprete che confermò quanto aveva asserito e fece anche menzione di due suoi congiunti che potevano asserire la stessa cosa. Nel corso del giudizio sì addussero due eccezioni: dimostrava l’avvocato del Poerio come la gran corte straordinaria, incaricata del giudizio, fosse imcompetente per questo caso, perchè l’accusa sì riferiva alla condotta del Poerio quando era ministro, per cui, tali accuse, dovevano portarsi innanzi la Camera dei Pari. L’eccezione non fu ammessa e rigettata nuovamente dopo appello. La seconda eccezione era l’allegato che, contro gli accusati, si ipotizzava la cospirazione contro la vita di alcuni ministri e del giudice Domenicantonio Navarro, presidente della corte, primo col mezzo della bottiglia scoppiata nella scarsella del Faucitano, quindi col mezzo di un corpo di pugnalatori od assassini, che dovevano compiere l’opera ove fallisse il mezzo della bottiglia. Gli accusati protestavano di non voler essere giudicati da lui, e questi presentò una nota alla corte in cui diceva di sentire degli scrupoli a giudicare in questo caso e desiderava d’essere guidato dal resto della Corte. La corte decise unanime ch’egli giudicasse questi uomini imputati di avere avuto l’intenzione di assassinarlo e multò i prigionieri e i loro avvocati in 100 ducati per avere fatta quest’obbiezione! Anche questa decisione venne confermata dopo appello. Navarro votò per la condanna e per la pena più severa. Ben quaranta persone furono private de’ mezzi di difesa per lo scopo di far presto! Gli avvocati dei detenuti seppero che i testimonii spergiuri mon conoscevano gli accusati e un avvocato manifestò il desiderio di chiedere al testimonio che additasse, fra le persone presenti, quella ch’egli accusava. La corte negò questo permesso. I membri dell’immaginaria società battezzata dalla polizia dell’Unità italiana, era di quarantadue persone. In fine di febbraio, Poerio e sedici suoi coaccusati furono confinati nel bagno di Nisida presso il Lazzaretto, furono giorno e notte confinati in una camera sola, lunga circa 16 palmi, alta 8. Quando a notte s’abbassavano i letti non rimaneva spazio tra loro. Potevano uscire solo incatenati due a due. Eravi una sola finestra e naturalmente senza vetri. Le loro catene sono come segue: Ognuno porta una forte cintura di cuoio sopra le anche. À questa sono raccomandati î capi superiori di due catene. Una catena di quattro lunghe e pesanti anella scende ad una specie di doppio anello fissato intorno alla noce del piede. La seconda catena consiste di otto anelli, ciascuno dello stesso peso e lunghezza dei primi quattro, e questa unisce due carcerati insieme, sicchè possono star distanti circa sei piedi. Non sì slega mai, nè il dì, nè la notte questa catena. L’abbigliamento è composto di un rozzo e duro giaco rosso, con brache e berretto dello stesso materiale. Le brache sono abbottonate per tutta la loro lunghezza e di notte si possono togliere senza rimuovere la catena. Il peso di queste catene è circa 8 rotoli (più di 7 chilogrammi) la più breve, e questo peso si deve raddoppiare quando ciascun carcerato ha da portar altresì la metà della più lunga. Il patimento è tanto più grande perchè vengono incatenati insieme incessantemente uomini educati con abbietti. Nel tempo che Poerio e i suoi compagni furono mandati a Nisida, venne ordine dal principe Luigi, fratello del re, che, come ammiraglio, aveva I’incarico dell’isola, che s’usassero ì doppi ferri collo scopo d’infliggere loro un’estrema morale e fisica tortura.”

Lettera dell’onorevole W.E. Gladstone a Lord Aberden sui Processi di Stato del Regno di Napoli.

(Lettere dell’onorevole Gladstone a Lord Aberden sui Processi di Stato del Regno di Napoli. Torino 1854)

La lettera ci immerge nel clima pericoloso ed instabile che si visse negli anni successivi al 29 gennaio1848 nel Regno delle Due Sicilie. Gladstone, statista inglese liberale, all’epoca della stesura della lettera era Cancelliere dello Scacchiere (Miistro delle Finanze). nel 1851, di ritorno da un soggiorno a Napoli, denunciò il regime poliziesco borbonico ad Aberdeen, Primo Ministro Inglese.

“Caro lord Aberdeen

Debbo cominciare una lettera ch’io temo tornerà molto penosa per voi, anzi ecciterà la più alta vostra indegnazione… La condotta del governo di Napoli, in ciò che riguarda i veri o supposti rei polilici, è un permanente oltraggio alla religione, alla civiltà, all’ umanità e alla decenza pubblica… la costituzione del gennaio 1848, data spontaneamente, giurata come irrevocabile colla massima solennità e finora mai mon abrogata ( sebbene violata quasi in ogni atto dal governo) non è mai esistita, non è che una mera finzione… l’amministrazione della giustizia non è scevra di corruzione, che comuni sono ì casi di abuso e di crudeltà fra i pubblici impiegati subordinati, che vi sono duramente puniti ì reati politici, senza che s’abbia molto riguardo alle forme della giustizia… incessante, sistematica, deliberata è la violazione d’ogni diritto, è la violazione di ogni legge umana scritta, è l’assoluta persecuzione della virtù allorchè è unita coll’intelligenza , è una persecuzione tanto estesa che niuna classe ne può essere allo schermo. Il governo è mosso da una feroce e crudele, non men che illegale ostilità contro tutto ciò che vive e si muove nella nazione, contro tutto ciò che può promuovere il progresso ed il miglioramento. Il governo vi calpesta orribilmente la religione pubblica colla sua notoria conculcazione d’ogni legge morale, sotto l’impulso dello spavento e della vendetta. Vi vediamo un’assoluta prostituzione dell’ordine giudiziario che è stato reso un trasparente recipiente delle più vili e grossolane calunnie che deliberatamente inventano i consiglieri della corona, collo scopo di distruggere la pace e la libertà e, con sentenze capitali , la vita delle persone più virtuose, oneste, intelligenti, illustri e raffinate dell’intera società. Un selvaggio e codardo sistema di morale, non men che fisica tortura, per mezzo di cui si fanno pronunziar sentenze da quelle depravate corti di giustizia… Il governo non si fonda sull’affezione dei popoli, ma sulla forza. Tra l’idea della libertà e quella dell’ordine non vi è più associazione, ma violento antagonismo. Il potere governativo, che si qualifica immagine di Dio sulla terra, agli occhi dell’immensa maggioranza del pubblico pensante appare come vestito dei più laidi vizi… La presente persecuzione è più grave che non le precedenti, e differisce da queste in quanto che è diretta agli uomini d’opinioni moderate… Si vuole ad ognì costo portar la povera natura umana agli estremi; si mettono in fermento le passioni feroci… Nella sola Napoli parecchie centinaia sono in questo momento accusati di delitto capitale… Il governo, di cuì importante membro è il prefetto di polizia, per mezzo degli agenti di questo dicastero, insegue e codia i cittadini, fa visite domiciliari, ordinariamente di notte, rovista le case, sequestra mobili e carte, tutto questo sotto pretesto di cercar armi; incarcera uomini senza alcun mandato, talvolta senza mostrare alcun ordine scritto. Non si dice poi mai quale sia la natura del reato. La prima cosa è arrestare e incarcerare, poi sequestrare e portar via libri, carte o checchè altro soccorra a quegli sciagurati e venali poliziotti. Si leggono quindi le lettere del prigione, non sì permette all’incolpato alcuna assistenza. nè il mezzo di consultare un avvocato. Per dir meglio, egli non e esaminato ma svillaneggiato nel modo più grossolano dai poliziotti. I prigioni, prima di essere giudicati, vengono ditenuti in carcere per parecchi mesi, per un anno, per due; ordinariamente il termine è più lungo. Non m’accadde mai d’udire che alcuno sia stato giudicato per motivo politico prima di 16 a 18 mesi di reclusione. Ho veduti degl’infelici attendere il giudizio dopo Venti mesi di prigione… Non dubito asserire, che fatto ogni sforzo per riuscire col mezzo di storte interpretazioni e di parziali produzioni di prove, a formulare un’accusa, se questa fallisce si ricorre allo sper- giuro ed alla calunnia. Degli sciagurati che sì trovano quasi in ogni terra, ma specialmente là ove il governo è il gran corruttore del popolo, dei mariuoli presti a vendere la libertà e la vita dei loro simili per danaro, e dar la loro anima giunta, vengono deliberatamente impiegati dal governo per deporre contro l’uomo che si vuole mandare in rovina. Le deposizioni sono generalmente fatte nel modo più rozzo e grossolano e portano con sè tante contraddizioni ed assurdità che stomaca l’udirle. Dire una prigione di Napoli è dire l’estremo del sucidume e dell’orrore. Ho veduto alcune di esse e vi dirò, mio lord, ciò che vi vidi; i medici d’ufficio non sì recavano a visitare i prigioni malati, ma i prigioni malati, colla morte sul viso, arrancavansi sulle scale di quel carnaio della Vicarìa, edifizio tenebroso così innmondo, così ributtante, che nessun medico consentirebbe per guadagno ad entrarvi. La minestra che forma l’elemento di sussistenza è così nauseabonda che senza un’estrema fame niuno può vincere la ripugnanza che produce. Non ebbi mezzo di assaggiarla. Le prigioni sono sporche come covili. Gli impiegati in esse, tranne di notte, non v’entràno quasi mai. Fuì deriso perchè leggevo con qualche attenzione deì pretesi regolamenti appiccati sopra una parete. Passeggiai fra una turba di 3 o 4 cento prigioni napolitani, assassini, ladri, delinquenti d’ogni specie, alcuni condannati, altri no e confusi cogli accusati politici. Nessuno portava catena; molte porte chiuse a chiavistello con inferriate tra mezzo, non eravi nulla a temere e usarono verso me, come a forestiero, molta cortesia. Essi formano una specie di società in cui l’autorità principale è quella dei gamorristi, gli uomini più famigerati per audacia di crimini. Questo sciame di esseri umani dormivano tutti in una lunga e bassa sala voltata, non illuminata che da una piccola inferriata ad un capo di essa. I prigioni politici potevano, pagando, aver il privilegio di una camera separata lungi dalla prima, ma non vera divisione fra loro. Darò a V. S. un altro saggio del trattamento che si usa a Napoli con uomini illegalmente arrestati e non ancora condannati. Dai 7 dicembre ai 3 febbraio Pironti, che prima era giudice, e fu trovato colpevole nell’ultimo dei mentovati giorni o in quel torno, passò le intere sue giornate e notti, tranne le ore ch’era menato in giudizio con due altri uomini, in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, sotto il livello del suolo di essa e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non potevano veder nulla. Entro questo brevissimo spazio Pironti e il suo compagno furono confinati per due mesi, e non ne uscirono pure per andare alla messa, o per altro motivo qualunque eccetto l’accennato. E ciò succedeva in Napoli ove per consenso universale, le cose vanno molto meglio che non in provincia. La presenza dei forestieri esercita qualche influenza sul governo; l’occhio della curiosità o dell’umanità penetra talora in questi bui recessi, mentre tutto è mistero nelle remote provincie o in quelle solitarie isole, le cuì pittoresche e fantastiche forme deliziano il passeggiero ignaro degli immensi patimenti ch’esse racchiudono. Questo, dico, vidi in Napoli e trattavasi di persona educata, d’un giureconsulto, d’un accusato, non d’un condannato..

Carlton Gardens, 14 luglio 1851″

Gladstone (Wikipedia)

Distinta relazione del danno cagionato dal tremuoto del di 29 novembre 1732 in tutta la provincia di Montefuscoli, o sia Principato Ulteriore col numero de’ morti, e feriti in ciascuna comunita’ della medesima provincia

La mattina di sabato 29 novembre del 1732, il territorio del Principato Ultra subì un dannoso terremoto. Una distinta relazione voluta dal Vicerè, definita “funesto avviso”, giunse a Napoli e attraverso i secoli, è giunta fino a noi. Si intervenne presto sui luoghi della sciagura per la cura dei sopravvissuti e il seppellimento dei morti affinché non rimanesse nell’aria il fetore dei cadaveri. Terremoto orribile che causò devastazione ovunque. L’epicentro, può ipotizzarsi la valle dell’Ufita, territorio di Carife e Guardia dei Lombardi con estensione a Mirabella, per il numero dei morti e la completa distruzione delle abitazioni.

“...Carifri dell’intutto spianata nelle abitazioni e chiese, il numero dei morti è di quattrocentosettanta, fra’ quali il proprio barone, la moglie, e famiglia, e centocinquanta i feriti… Mirabella è rimasta dell’intutto distrutta, non vedendosi altro che un mucchio di pietre, senza che neanche vi si discerna strada alcuna. Morti sono al numero di cinquecento e i feriti duecento… Guardia Lombarda tutta spianata, i morti sono cinquantadue e settanta feriti… a Trevico città sono state distrutte centodue case e tutte le restanti lesionate, i morti però sono soli tre e li feriti 20…Sant’Angelo dei Lombardi città è resa dell’intutto inabitabile, mentre le fabbriche in parte sono rovinate a terra e in parte aperte, tanto che il popolo tutto abita in campagna. Nella Chiesa Cattedrale non si può più officiare. Il Monistero de’ Minori conventuali è tutto precipitato e gli altri due de’ Riformati e Celestini lesionati e aperti, i morti però non sono stati più di cinque, ma moltissimi i feriti...”

Guarigione di carcinoma facciale senza estirpazione; pel medico-chirurgico condotto Stefano Melina ( Gazz. Med. ltal. Tosc. )

E’ Stefano Melina (1927-1997) omonimo e discendente del Medico condotto a Carife, sua patria, a riportare alla luce il brano che segue pubblicato sul giornale medico napoletano “il Severino”, sulla Gazzetta Medica Italiana Toscana, sul n. XVIII (anno XXX) dell’Osservatore Medico del 15/09/1852. L’eperianza singolare su un caso di carcinoma vegetante sulla gota di un giovine del posto, rende ragione di come la tradizione (…di uso comune fra la popolazione) possa curare forme simili fra loro e più gravi nella espressione patologica, con la guarigione e la restitutio ad integrum del tessuto interessato.

“In Carife del Principato Ultra, un contadino presso a dieci luslri di età, di temperamento sanguigno, de­dito a’ liquori spirilosi, da più anni avea nella gota sinistra un porro che emulava la grandezza d’un pisello. Intento egli a lavori campestri, in un giorno della stagion novella, s’avvide che s’ingrandiva nel volume e di giorno in giorno sempre più inollran­dosi, prese poi il perimelro di un uovo colombino. Indolenle non più, come per l’avanti, ma invece mo­leslo ed affliggenle gli si rese. Paventava I’infelice in tal posizione e nell’ansia di alleggiarsi delle sue sofferenze, da sè, volle applicare localmenle delle mal­vale a più riprese; ma che! lungi dal giovargli, il tumore anzidetto progrediva per lo peggio, finchè screpolandosi in mezzo ad un’ abbondante secrezione di lava icorosa, si pronunziava a modo di un piccol ramo del comune CavoJfìore. ln vista di tale scon­cerlo bramò senlire il mio consiglio e menlre gli acconsento, senza esitanza, gli feci marcare il grave interesse che ispirava il maligno tumore; dichiarava trattarsi del vero Carcinoma volgare di De Sauvages e, sotto tal concetto patogenico, gli amministrava di­versi rimedi discioglienli, presi dalla classe delle so­stanze solanacee, dalla cicuta maggiore, coll’opinare di Stork. Usava pure I’olio essenziale della piombaggine Europea, giusla il formulario del testè riferilo scrittore nella storia da lui inserita negli atti dell’Ac. R. des Sc, anno 1743; ma tutto ali’indarno. L’im­portanza del serio malore, il dovere, nè casi pro­cardici, di dipendere dal consiglio di altri professori, mi spinsero sino ad obbligare il misero paziente per­chè a ciò avesse adempito. Di fatti, gl’invocati colleghi, unanimamenle e senza indugio, convenivano per l’estirpazione, qual unico mezzo di salvezza. Ed innanzi di eseguirsi in tal giusto dettato, convinto con Stork ed allri sapienti figli di Esculapio, che talora anche nelle cose poco stimate e volgari, il poter di natura è ammirabile; esortai ad ungere sull’aperto tumore l’intero succo addominale dello Scarabeo paluslre, in uso presso il volgo, perchè provato dalla esperienza valevole a distruggere i porri in qualsivoglia sito del corpo, e che io, per curiosità volli estendere anche al soggetto caso. Da questo operato, bello si fu il vedere tutto di escara circondato l’aperto tumore; escara, la quale poi esfoliata , e più volte ripetuta lasciò osservarne menomato il volume; fintanto che di giorno in giorno, succedendo lo stesso, si appiccolì tanto, da far travedere non più che breve traccia di se stesso senza rimaner turbata l’eleganza della gota male affetta. Tutto il trattamento fu della durata di quindici giorni, impiegandosi uno per volta di quegli scarabei palustri per motivo che ospitano d’ordinario nelle paludi, ove più facilmente si osservano ne’ mesi di maggio e settembre, e dopo caduta delle pioggie.”