La lettera che segue riesce a dare idea di come migliorarsi nel tempo: “Pigliare la mira alta”, evitare le mediocrità ed adoperarsi da soli ingegnandosi a dare il meglio di se. Chi cresce con l’aiuto degli altri, col tempo rientra tra i suoi ranghi. Il pensiero di Aristotele è sempre valido, la luce in presenza del buio risalta di più, il buono vicino al cattivo è più evidente come è più evidente il cattivo vicino al buono.
23 novembre 1718.
“Signor mio. La maniera buona di rifiutare una opinione altrui è quella di veder prima il fondamento che hanno quelli che la sostengono. L’uomo non si deve contentare della mediocrità, ma andare sempre al sommo delle cose e al perfetto; pigliare insomma la mira alta. Così se ognuno facesse nelle città l’opera e l’officio suo eccellentemente, e s’ingegnasse d’esser superiore a tutti gli altri della sua propria professione e mestiero, sarebbe questa una bella gara, una discordia lodevole. A voler che si conosca con fondamento il buono, e che se ne sappia dare certa e stabile ragione, bisogna vedere anche il cattivo, perchè, come dice Aristotile che i contrari posti l’uno accanto all’altro, più spiccano. Se non ci fusse il cattivo, con che paragonarlo, non farebbe spicco il buono, nè si mostrerebbe il lume delle cose buone, se non prendesse suo risalto e ricrescimento dalle cose scure e cattive.”
Da dove viene che da padri molto intelligenti nascano figli deludenti e da padri del tutto incapaci nascano figli molto capaci. Alessandro Tassoni (scrittore e poeta, nato dal conte Bernardino di Modena, di indole orgogliosa, pubblicò nel 1620 i suoi “pensieri”), si interroga su questo dilemma. Le conoscenze scientifiche nel ‘600 erano molto limitate e lo scrittore si istruisce nel dare una qualche spiegazione al fenomeno, osservando e dando ragione al comportamento dell’uomo durante il congiungimento, che se è istintuale, animalesco, dà frutti imperfetti, se invece fa prevalere la dolcezza, l’amore, l’attenzione, il rispetto, ecco che si generano figli intelligenti. La donna è vista come accoglienza, cura della gestazione; nell’osservare, poi, che vi sono figli che somigliano più alla madre che al padre, riconosce che anche la donna partecipa alla formazione del nascituro come vuole Ippocrate. Infine, riconosce che uomini di grande ingegno somministrano al nascituro quanto hanno in serbo, al momento del concepimento.
“Onde vegna, che di Padri di molto senno, nascano figliuoli. balordi; e di Padri balordi figliuoli di molto senno.Alcuni dicon che l’esser savio, o pazzo, sia qualità dell’anima, ma essendo l’anime create da’ Iddio, e non generate dagli huomini, non habbia da parer marauiglia, se quelle de’ figliuoli non rassomigliano talora a quella del padre. Ma l’essere un’huomo savio, o pazzo secondo i migliori filofofi, non viene dall’anima, ma dalla disposizione o indisposizione del Padre che genera un altro simile a lui, con l’istessa perfezione o imperfezione generar lo dourebbe colle medesime qualità. Alcuni hanno inventato un pensier poetico, che piace a molti e che afferma che gli huomini di poco ingegno nell’atto del congiungimento, s’applicano con tutto l’animo a quell’azione; onde, per questo, sogliono generaré i figliuoli pazzi. I Padri di grande ingegno, se vanno coll’immaginazione nelle speculazioni, servando nell’atto, l’istesso tenore del congiungimento, sogliono per lo più generare i figliuoli balordi, da qui nacquero Marco figlio di Cicerone che condusse una vita dissoluta e dedita ai piaceri, Claudio figlio di Drufo, Gaio figlio di Germanico, Commodo figlio di Marco Antonino, Lamprocle figlio di Socrate che secondo Aristotile si rivelò insignificante, stupido ed ottuso.E. Stratonico Fifico (come riferisce Galeno) tenne, che’l seme predominante, o della donna, o dell’huomo fosse quello, che il parto formasse; e che l’altro servisse nel ventre per alimento al bambino. E di questa dottrina d’Ippocrate, e di Stratonico se ne da l’esempio nell’huomo, il quale essendo composto di due semi diversi, l’uno d’essi forma il pulcino, e l’altro gli serve per alimento. Alcuni altri dicono: che quando da padre di grande ingegno nasce un balordo e dappoco, ciò viene perchè il seme della madre prevale non essendo quello dell’huomo ingegnoso per generare; e l’huomo generato da seme di donna, non può esser prudente per cagione del molto freddo, e umido di quel sesso. Oltre a questo disposto, habbiamo al contrario Aristotile, e tutta la scuola Peripatetica, che niega, che mai la donna, con seme alcuno, alla generazione concorra, volendo, che quello che in lei ne par seme, non sia altro, che sudore della matrice. Benchè questa opinione d’Aristotile, per l’autorità di tant’huomo, sia accettata comunemente, a me sempre è piaciuto più quella d’Ippocrate che sostene che la donna babbia feme, il quale alle volte anch’egli alla generazione possa concorrere, vedendo noi, che i figli, molto spesso, s’assomigliano di faccia, e di costumi, più alla madre, che al padre. Don Gregorio Pomodoro, illustre ingegno dell’età nostra dice che negli huomini sapienti per esser contemplativi, tutta la perfezione del sangue loro, che è tenue e sottile, ascende al capo a confortare il cervello e che dell’altro, che rimane feccioso e mancante di calore e di spiriti, si genera il seme il quale poscia, o per la sua imperfezione è infecondo o produce parti insensati. Io non negherò che negli huomini spiritosi e grandi, non sia vero, che tutti gli spirti più vivaci si riducano al cervello per quivi somministrare virtù e vigore alle potenze dell’intelletto.”
La lettera che segue, rivolta da un giovane all’amico, sottoliniea il disprezzo che egli prova verso il gioco, verso gli intrighi, verso l’adulazione interessata osservati nella città in cui vive. Allontanandosi da essa e da questi invasi, si reca nelle campagne dove, da solitario, apprezza la vita semplice dei contadini, la purezza dei sentimenti ed il lavoro onesto, l’amore nei contatti umani e il rispetto dei luoghi sacri. Sembra dire che nelle campagne si vive la vita costruttiva, nelle città si vive la perdizione. Col passare del tempo le generazioni si sono rivolte ai piaceri effimeri… alle passaggiate senza senso, alle corsette lungo i cigli delle strade… mentre le terre incolte stanno ad osservarle.
“Caro amico, buon per me che sono persuaso che la cabala, l’intrigo e il bassamente adulare mai trionfino sui giusti diritti e sulla virtù. Ho veduto certuni strappar dalle mani gl’impieghi a cert’altri, cui erano per giustizia dovuti. Se un ladrone ti spoglia, puoi almeno chiamarlo animoso perchè s’espoǹe a un cimento; ma come nomerai certi stupidi onde ogn’ingeguo consiste nell’ostinata cecità della sorte, che li solleva come la feccia che galleggia sull’acqua? Questi stupidi che trionfano d’averti superato coll’avvilirsi di continuo a contentare il capriccio di chi comanda; col rampicarsi per le scale del grande, e prostrandosi incensarlo poco meno del disgraziato che implora la vita. Mi si affacciano alla mente quegli anni in cui i contadini ritornando dai campi erano attorniati dai figliuoletti e nipotini che tutti ilari loro saltavano intorno, chi stringendo lor le ginocchia, chi prendendo loro la mano; e parevami vedere alcuno di essi già vecchio pigliar di peso un bambino, porselo in collo, ed inondarlo di baci. Volgendo quindi il pensiero sopra le madri, io le osservava preparare la cena, e vedeva sedersi a tavola ognuno, e ognuno guardarsi con iscambievole amore. Li seguiva poi quando essi uscivano la mattina coi bovi aggiogati, e quando il giorno lavoravano le terre sempre in pace, e forse più contenti di molti altri mortali. E nei giorni festivi venivano colle loro famiglie, e si sedevano sopra questi murelli, e attendevano il suono della campana che li chiamasse agli uffizj divini; e mentre il parroco si preparava per la sacra funzione, se ne stavano fra loro parlando, tenendo i teneri fanciullini per mano, od in braccio, finchè al primo tocco, cavandosi tutti il cappello, entravano in chiesa a pregare per la felicità de’ lor cari, ed implorare il frutto de’ loro sudori. Così io mi pasceva di malinconiche fantasie, tutto commosso di tenerezza e rammarico. Pure essi hanno avuto la consolazione di riposare nella terra dei loro padri. Oh amico! questi solitarj passeggi che ripeto sovente nelle campagne più lontane dalla città, d’onde poi nascono tali malinconiche fantasie, mi sono necessarj davvero; essi divertono la mia ira, e la calmano, nell’atto che lavista dei piaceri la rende più intensa, perchè il sentimento de’ mali mi vieta, per quanto io faccia forza a me stesso, di parteciparne cogli altri.21 Novembre 1816.“
Una meticolosa descrizione dei danni causati da un fulmine, che colpisce in pieno il campanile della Chiesa di San Giovanni Battista di Carife (AV), non quello attuale ma il vecchio, ubicato ove attualmente è la canonica, ci fa rivivere il momento di paura e di preghiera vissuto dai presenti. Un grande osservatore si palesa l’anonimo autore ed inatteso il ritrovamento del documento dattiloscritto, piegato con cura e posto fra le pagine di un testo dell’archivio familiare di Stefano Melina. Lo scritto si commenta da solo; l’autore ci prende per mano, ci introduce nella Chiesa e ci fa assistere atterriti all’evento, quindi ci conforta assicurandoci l’intervento della Vergine.
“Il giorno 23 marzo del 1888 alle ore 15 scoppiò una folgore sulla vetta del campanile ove si rattrovava una statua di legno di San Rocco, colle ablazioni del quale erano stati eseguiti i restauri fin dal 1854. Quello scoppio ridusse in vari pezzi quel simulacro, essendosi rinvenuto una parte della testa nella frana, altra parte fu rritrovata innanzi alla chiesa dei soppressi Conventuali di San Francesco ove esiste la confraternita di Maria Santissima delle Grazie e di San Michele Arcangelo, altro pezzo lungo la piazza e uccise due animali setolosi; s’introdusse all’interno del campanile, lesionò la parete interna verso la chiesa, scantonando molti frantumi di pietre, di mattoni e di calcine vicino le due cantonate; spezzò due grosse mezzine di legno querce che erano nel mezzo del pavimento ove si fa la forza per sonare le campane; in un modo misterioso è uscito di là, si è attaccato al corniciato della Chiesa, lo ha scantonato in un punto; indi scantonando la parte fuori di una buca di andito che comunicava nell’interno della chiesa, per questo si è introdotto in essa, precisamente alla parte dell’altare del Santissimo Rosario, ha scantonato in un punto il corniciato a stucco, che circonda il bel quadro della gran Madre di Dio, ha sbalzato quel punto, ove è dipinto un Angelo a terra, si è stracciata la tela nel mezzo, ha sbalzato fino all’altare del Santissimo Sacramento parte del corniciato di legno indorato; poi ha percorso tutto il corniciato di legno indorato della Vergine, distruggendo l’indoratura, ha scantonato ai due fianchi, ove erano i quadri della Madonna del Buon Consiglio, e dell’apparizione miracolosa della saletta, spogliando pure le cornici dall’indoratura; l’intero quadro era coperto da un velo, questo è stato acceso dal fuoco elettrico e si è sviluppata la fiamma, per estinguersi, si obbligò il sagrestano a salire sull’altare, benché stordito e soverchiato dalla paura, pure strappò il velo, estinse la fiamma, ma il timore non fini. Era un finimondo!!! Non si può tacere che lo scoppio del tuono fa sentire il suo colpo più di quello di un cannone!!! Era giorno del mercordi delle quattro tempora della Pentecoste, si doveva sonare la campana per la messa conventuale; il sagristano accompagnato a due garzonetti per animare il suono della campana, prese licenza dall’Abate a tanto eseguire; questi dispose di attendersi. In chiesa erano presenti l’Abate Don Elziario de Angelis, il Canonico Lungarella, il Can. Santoro ed un tale Giovanni D’Ettorre, vecchiarello zoppo che stava seduto allo scanno al fianco destro dell’Altare del Santissimo Rosario. Era pure in Chiesa il Sacerdote Vitantonio Carsillo de Minori Riformati ritornato da Cattaro della Dalmazia, come Missionario Apostolico per rivedere i suoi dopo 25 anni di assenza. Tutti noi fummo presi dallo più terribile spavento, vi accorse una folla di popolo, invocavamo l’aiuto di Maria Santissima e tutti fummo salvi pel suo potentissimo patrocinio. Miracolo specchiato che Maria Santissima ci liberò dalla morte”.
Nel XVIII sec. affascinano i resti della città di Hercolaneum, antica città romana sepolta da cenere vulcanica e pomice nel 79 d.C, la prima ad essere scoperta nel 1709, mentre la vicina Pompei fu scoperta nel 1763. Molto ricca Hercolaneum essendo rifugio balneare per l’èlite romana. Winckelmann noto archeologo tedesco, si recò nel 1759 a Napoli e visitò le rovine di Hercolaneum e Paestum. Nelle sue ricerche si accompagnò all’amico marchese Galiani di Napoli che aveva tradotto Vitruvio, architetto e scrittore romano. Nelle sue lettere Winckelmann descrive i luoghi dissepolti; Leggendole entriamo anche noi con Loro nelle viscere degli scavi e seguendoli nella esplorazione del teatro di Ercolano e nelle rovine di Paestum viviamo le loro stesse emozioni.
“Herculanum e Poestum
Cinquantaquattro alti gradini conducono al teatro, sepolto a notevole profondità sotto terra. si è cercato di dare un’idea precisa della descrizione che troviamo in Vitruvio di questa parte dei teatri romani: ma non è stato possibile comprendere questo architetto e gli altri scrittori che parlavano dei teatri, in particolare Polluce. Nel 1718, il cardinale Albani fece scavare le rovine di questo teatro; ivi trovammo quattro statue di marmo nero, un Giove e un Esculapio, che oggi sono nel Campidoglio; un fauno e un atleta mutilato. Devo il riconoscimento pubblico qui al mio amico signor marchese Galiani, autore dell’ammirevole traduzione italiana di Vitruvio, che accompagnò il signor Volkman, il signor Fuessli e me, nei condotti sotterranei di questo teatro, e che ci mostrò la pianta di questo edificio, progettato dal defunto signor Weber, che ci ha spiegato, soprattutto per quanto riguarda la scena, con tutta la precisione e la chiarezza che le sono caratteristiche. Senza l’aiuto di una guida del genere è impossibile farsi un’idea del luogo in cui ci troviamo, tanto meno della pianta di un edificio sconosciuto, poiché siamo semplicemente obbligati a indovinarlo in una stretta galleria all’interno di un altro. Venendo a Paestum, Il signor marchese Galiani, di Napoli, pubblicò ciò che il signor Antonini aveva intenzione di dire. Tuttavia ha commesso un grande errore; egli sostiene che Pestum avesse una forma circolare, ed era esattamente il contrario, perché le mura di cinta di questa città formavano un quadrato. Se ci prendiamo la briga di confrontare ciò che è mio dire sugli edifici di Peftum, con ciò che ne disse il signor marchese Galiani, vedremo facilmente quanto le descrizioni di chi scrive siano difettose e insoddisfacenti. Tutta la cinta muraria della piazza della città di Paeftum, posta a un miglio e mezzo dall’Italia dal lembo del golfo di Salerno, con le quattro torri angolari, è conferita nella sua interezza, e queste mura sono costruite a pianta quadrangolare molto grande o pietre oblunghe, unite tra loro in cemento. Queste mura sono coronate da una distanza all’altra da torrette rotonde. All’interno delle mura, e nel centro della città antica, si trovano due templi e un altro edificio pubblico, che era o una basilica, o una palestra o ginnasio. Questi due templi, come il terzo edificio, sono peripteri, cioè hanno tutt’intorno un colonnato fogliato, ed hanno un portico davanti ed uno dietro. Il tempio più grande, che fu quello che soffrì meno, ha colonne fisse davanti e altrettante dietro, con quattordici colonne ai lati, contando il doppio di quelle agli angoli. Il tempietto è decorato, come quello grande, con colonne fisse davanti e dietro, e tredici lungo i lati.”