Lettera di Michelangelo Buonarroti a Lodovico suo padre, datata 27 gennaio 1509.

Michelangelo scrive la lettera al padre mentre lavorava a dipingere la volta della Cappella Sistina. Il lavoro lo aveva intrapreso l’anno prima nel 1508 ed in una lettera di quell’anno fa una richiesta al padre: “…mi facci comperare o da Francesco Granacci o da qualche altro dipintore un’oncia di lacca o tanta quanta e’ pu avere per e’ detti danari, che sia la più bella che si trovi in Firenze; e se e’ non ve n’à, che sia una cosa bella, lasci stare…”. Nella lettera che si legge di seguito, Michelangelo personifica la paura, che se dovesse togliere qualcosa o far mancare da vivere al padre, garantisce egli come figlio. Da un anno, non ha ricevuto ancora un “Grosso”, un soldo, e non ne chiede perchè non andando avanti il lavoro, non sente di meritarseli. Il lavoro lo ritiene difficoltoso perchè non è la sua professione: egli è scultore, non pittore!

Roma, 27 di gennaio (1509)

A Lodovico di Buonarrota Simoni in Firenze

Carissimo padre. Io ò ricevuta oggi una vostra, la quale intendendo, ó avuto dispiacere assai. Dubito che voi non vi mettiate più timore o paura che non bisognia. Àrei caro che voi m’avisassi di quello che voi stimate che la vi possa fare, cioè del peggio, quando la facessi tutto suo sforzo. Non v’ò da dire altro. A me fa male che voi istiate in cotesta paura; ond’io vi conforto a prepararvi bene contro alle sua forze, con buon consiglio, e dipoi non vi pensar più: che quand’ella vi togliessi ciò che voi avete al mondo, non v’à a mancare da vivere e da star bene, quando non fussi altri che io. Però state di buona voglia. Io ancora sono in fantasia grande, perchè è già uno anno che io non ò avuto un grosso da questo Papa, e none chiego, perchè el lavoro mio non va inanzi i’modo che a me ne paia meritare. E questa è la difìcultà del lavoro, e ancora el non esser mia professione. E pur perdo el tempo mio sanza frutto. Idio m’aiuti. Se voi avete bisognio di danari, andate allo Spedalingo e fatevi dare per insino a quindici ducati, e avisatemi quello che vi resta. Di qua s’è partito a questi dì quello Iacopo dipintore che io fé’ venire qua; e perchè e’ s’è doluto qua de’ casi mia, stimo che e’ si dorrà ancora costà. Fate orechi di mercatanti e basta: perchè lui à mille torti e àre’mi grandemente a doler di lui. Fate vista di non vedere. Dite a Buonarroto che io gli risponderò un’ altra volta.

Lettera scritta da Alessandro Verri al fratello Pietro redatta in data 15 gennaio 1757.

Alessandro fu scrittore e letterato, Pietro fu filosofo, economista e scrittore. Il loro fratello minore Giovanni fu il padre naturale di Alessandro Manzoni. In una delle tante lettere scritte al fratello, Alessandro racconta di trovarsi a Parigi insieme a Cesare Beccaria (nonno di manzoni) dove incontra altro italiano verso cui traspare un accenno di invidiosa stima, si tratta dell’abate Galiani, economista e letterato napoletano.

“…Beccaria ha l’alto tuono del ministero filosofico. Egli è un pazzo come non ne conosco nessuno. Se ci fossi io, abbasserebbe forse un poco la coda di pavone. Non credere poi fino a un certo segno la figura che ha fatto in Parigi. Ti torno a dire ch’era sul decadere, come di tutto avvenir suole a Parigi. Quand’egli partì, era ritornato da Napoli, dov’era andato per qualche tempo, l’abate Galiani, secretario di ambasciata di quella Corte. Questo abate, che ha cento spiriti e neppure un quarto di cuore, è l’uomo alla moda di Parigi, è ricercato, è conosciuto da per tutto. Si sapeva ch’ei ritornava appena che cominciò a porsi in viaggio, e se ne promulgava la fausta novella giubilando. Io e Beccaria ci siamo trovati a pranzo con lui da madama Geoffrin, e ti assicuro che l’abate brillò sempre, e niente Beccaria, a cui ha dato lodi molto parche. Il ritorno di quest’abate, per cui sono pazzi, avrebbe facilmente rivolto l’entusiasmo di Beccaria su di lui. Quest’è certo che Galiani andava in tutte le nostre compagnie, e dov’egli è, tutti taciono, e lo lasciano brillare (1). Beccaria avrebbe dovuto fare come li altri la parte di uditore, come l’ha fatta all’occasione…”

(1) “Donne galanti, filosofi disputanti, smania di conversare, di motteggiare, e di prevalere per brio ed acume d’ingegno, tutto era accomodato all’umore del Galiani”. Basta leggere i due volumi delle lettere a madame d’Epinay per capire come i costumi parigini, regnando Luigi XV, andassero a verso del Galiani. Molti libri di quel tempo parlano del charmant abbè. Quelli di Diderot, l’immensa Corrispondenza di Grimm, le Memorie di Suard scritte da Dorat, quelle di Marmontel, li scritti dell’abbate Mercier di S. Làjier, di Vauvilliers e tant’altri mostrano quanto Galiani brillasse nei circoli e quanto il suo spirito li rallegrasse, tanto che l’ingegnosa duchessa di Choiseul, moglie del ministro, giunse fino a dire “che in Francia incontrarsi il brio dell’ingegno in picciola moneta, e in Italia in verghe d’oro”.

1991 – Intervista a Don Leone Maria Iorio sulle “Tentazioni diaboliche”.

Don Leone da Cairano, parroco del comune di Andretta (AV), esorcista riconosciuto sia dalla Chiesa che dal popolo, fu molto sensibile alla richiesta di essere intervistato. Pieno di fervore cristiano si prestò volentieri a trattare argomenti difficili per “accendere la speranza” attraverso l’informazione.

Don leone, ci informi su come il male tenti alla vita dell’individuo.

il demonio si insinua promettendo la felicita’, ma è pura illusione che porta ad una tale delusione che a sua volta conduce ad una esasperazione che sfocia nella distruzione, che è l’ultimo traguardo. Inizia la sua azione facendo avvertire un vago malessere che simula una malattia organica o mentale. Il sofferente non trova sollievo con niente e man mano che passa il tempo, peggiora sempre di più; a volte, il soggetto, ha momenti meno dolorosi ma è sempre il demonio che per non farsi scoprire, consente degli apparenti miglioramenti, facendo credere che si tratti di malattia che, a volte, potrebbe anche coesistere. Qui, in tal caso, mentre la scienza indaga sui processi naturali, sotto l’aspetto scientifico, la Chiesa vede oltre, dietro questa parvenza scientifica, nel sottofondo, vede un essere che ci odia da morire e desidera la nostra fine. Nel Vangelo abbiamo il caso di un epilettico indemoniato ove coesistono, la malattia (epilessia) e la possessione diabolica. In sostanza, col tempo, la vittima avverte una voce che si esprime con frasi distruttive, tipo: “Ma che ci stai a fare”, “Non vali nulla”, “Non è meglio che ti suicidi” e questa è la fase più pericolosa di rischio suicidio.

Alcuni anni fa, Papa Wotyla annunciò ufficialmente che bisognava combattere il demonio. Lei ha affermato che il male agisce di nascosto,

“Si, è molto abile. Dice Sant’Alfonso che la forza del demonio è nel camuffarsi; quando si svela è perduto. Eva cadde nella trappola perchè non fece domande; non fu tentato Adamo perchè l’uomo è più portato al raziocinio. La donna, nelle scelte pratiche, si fa dominare più dal sentimento e dalla fantasia che dal raziocinio. Non fu tentato Adamo perche’ avrebbe potuto chiedere “chi sei tu, da dove vieni, cosa mi vieni a dire”; con Eva invece, fomentando, riscaldando la sua fantasia, allettando la sua vanità, non le diede la possibilità di fare domande. Santa Teresina afferma che se la donna si fermasse un attimo a riflettere, non cadrebbe nelle tentazioni diaboliche.

Guarigione di carcinoma facciale senza estirpazione; pel medico-chirurgico condotto Stefano Melina ( Gazz. Med. ltal. Tosc. )

E’ Stefano Melina (1927-1997) omonimo e discendente del Medico condotto a Carife, sua patria, a riportare alla luce il brano che segue pubblicato sul giornale medico napoletano “il Severino”, sulla Gazzetta Medica Italiana Toscana, sul n. XVIII (anno XXX) dell’Osservatore Medico del 15/09/1852. L’eperianza singolare su un caso di carcinoma vegetante sulla gota di un giovine del posto, rende ragione di come la tradizione (…di uso comune fra la popolazione) possa curare forme simili fra loro e più gravi nella espressione patologica, con la guarigione e la restitutio ad integrum del tessuto interessato.

“In Carife del Principato Ultra, un contadino presso a dieci luslri di età, di temperamento sanguigno, de­dito a’ liquori spirilosi, da più anni avea nella gota sinistra un porro che emulava la grandezza d’un pisello. Intento egli a lavori campestri, in un giorno della stagion novella, s’avvide che s’ingrandiva nel volume e di giorno in giorno sempre più inollran­dosi, prese poi il perimelro di un uovo colombino. Indolenle non più, come per l’avanti, ma invece mo­leslo ed affliggenle gli si rese. Paventava I’infelice in tal posizione e nell’ansia di alleggiarsi delle sue sofferenze, da sè, volle applicare localmenle delle mal­vale a più riprese; ma che! lungi dal giovargli, il tumore anzidetto progrediva per lo peggio, finchè screpolandosi in mezzo ad un’ abbondante secrezione di lava icorosa, si pronunziava a modo di un piccol ramo del comune CavoJfìore. ln vista di tale scon­cerlo bramò senlire il mio consiglio e menlre gli acconsento, senza esitanza, gli feci marcare il grave interesse che ispirava il maligno tumore; dichiarava trattarsi del vero Carcinoma volgare di De Sauvages e, sotto tal concetto patogenico, gli amministrava di­versi rimedi discioglienli, presi dalla classe delle so­stanze solanacee, dalla cicuta maggiore, coll’opinare di Stork. Usava pure I’olio essenziale della piombaggine Europea, giusla il formulario del testè riferilo scrittore nella storia da lui inserita negli atti dell’Ac. R. des Sc, anno 1743; ma tutto ali’indarno. L’im­portanza del serio malore, il dovere, nè casi pro­cardici, di dipendere dal consiglio di altri professori, mi spinsero sino ad obbligare il misero paziente per­chè a ciò avesse adempito. Di fatti, gl’invocati colleghi, unanimamenle e senza indugio, convenivano per l’estirpazione, qual unico mezzo di salvezza. Ed innanzi di eseguirsi in tal giusto dettato, convinto con Stork ed allri sapienti figli di Esculapio, che talora anche nelle cose poco stimate e volgari, il poter di natura è ammirabile; esortai ad ungere sull’aperto tumore l’intero succo addominale dello Scarabeo paluslre, in uso presso il volgo, perchè provato dalla esperienza valevole a distruggere i porri in qualsivoglia sito del corpo, e che io, per curiosità volli estendere anche al soggetto caso. Da questo operato, bello si fu il vedere tutto di escara circondato l’aperto tumore; escara, la quale poi esfoliata , e più volte ripetuta lasciò osservarne menomato il volume; fintanto che di giorno in giorno, succedendo lo stesso, si appiccolì tanto, da far travedere non più che breve traccia di se stesso senza rimaner turbata l’eleganza della gota male affetta. Tutto il trattamento fu della durata di quindici giorni, impiegandosi uno per volta di quegli scarabei palustri per motivo che ospitano d’ordinario nelle paludi, ove più facilmente si osservano ne’ mesi di maggio e settembre, e dopo caduta delle pioggie.”

Delle donne Greche: dottrina degli antichi intorno alla felicita’.

Percorso anni addietro il territorio antico della Grecia, dell’isola di Creta, ove gli occhi si posarono sugli scavi del palazzo di Cnosso, di civiltà Minoica e qui parliamo di 2.000 anni a.C. Civiltà riconosciuta come la prima nel Mediterraneo: attratto dalla lettura, mi sono soffermato su una lettera di Nicola Vivenzio inviata a Donna Elena Dell’Andoglietta. Chi sono costoro? Vivenzio nacque a Nola, si addottorò in diritto e fu giudice della Vicaria nella capitale del Regno delle due Sicilie; esercitò dal 1783 al 1792 (anno della sua morte). Dell’Andoglietta, nata nel Salento nel 1780, divenuta avvocata di fama, doveva essere fanciulla quando ricevette la lettera del Vivenzio, amico di famiglia. Perchè questa lettera? Perchè si parla di donne greche e del loro valore come esempio di virtù.

“Alla Signora D. Elena Dell’Andoglietta

Madamigella.

Vi parlai dei due opuscoli di Plutarco che voi bramate tanto di leggere; l’uno, degli apostegmi delle donne Spartane; I’altro, delle donne illustri. Il carattere delle Spartane sembrerà certo superiore assai alla comune condizione delle donne; ma questo era l’effetto della educazione che nelle republiche Greche si dava loro; non essendovi stato alcun popolo, che avesse avuto leggi migliori per sostener l’onestà e la virtù fra le donne. In Isparta e nell’altre antiche republiche Greche, gli uomini erano educati nell’amor della patria, e nel valore; così pure que’ savii legislatori, riguardando la perdita del costume nelle donne, come uno de’ più gravi mali dello stato, posero ogni cura nell’ educarle per modo, che lontane dalla mollezza e dalla vanità, destassero negli uomini la loro ammirazione, con esser di esempio ad opere virtuose. Un Greco diceva che le donne viver dovessero in si riserbato modo, che neppure della loro virtù ne pervenisse notizia alcuna; o che fossero di tali egregi costumi, e lodevole vita, che ognuno venisse costretto parlarne con riverenza, ed onore. Omero descrive gli opposti caratteri di Penelope e di Elena, due donne celebrate e famose nell’antichità. Elena la più bella fra tutte le Greche dell’età sua, e adorna di tutti i pregi e le grazie della natura, ma vana e leggiera, era moglie di Menelao Re di Sparta. Paride figlio di Priamo, Re di Troia, preso dalla bellezza di una tal donna, fa riceversi per finte ragioni come ospite in casa di Menelao, scoprendo ad Elena l’amor suo: ed ella, mentre che ascolta con piacere le voci di questo ardito ed insidioso amante, se ne compiace, e fugge con lui. I Greci per vendicar tanta ingiuria, unitisi insieme, dopo una lunga e feroce guerra e dopo tanti memorabili avvenimenti, distruggono infine la casa di Priamo, e Troia; e il nome di Eiena rimane in abbominazione fra’ Greci egualmente, che fra’ Trojani. Penelope, moglie di Ulisse Re d’ Itaca, giovane e bella, saggia e virtuosa, rimane sola col piccolo Telemaco suo figliuolo, mentre che Ulisse è costretto di seguire ancor egli i Greci nella guerra di Troia. Molti giovani divenuti amanti di Penelope cercano di sedurla ed ella elude per lungo tempo con ingegnosi e prudenti modi, le importune richieste di tanti amanti; fino a che, dopo molti anni, tornato Ulisse, gode con lui e con Telemaco tranquilla pace, lodata da tutti, ed ammirata e il suo nome resta poi celebrato sempre fra le donne di Grecia, e ricordato, come d’illustre esempio, che imitar si dovesse da loro. Con tali piacevoli immagini, Omero oppone il vizio alla virtù, , e fa comprendere per sensibili modi i tristi effetti, che seguono la leggerezza, e la vanità di una donna. La stessa educazione delle donne greche si dava alle loro donne da’ nostri antichi Sanniti. Essi aveanò in costume di adunare ogni anno i loro giovani, giudicando quale fra loro fosse il primo per lo valore, e per lodevoli azioni, e così gli altri appresso. Colui che giudicato veniva il migliore fra tutti, scieglieva in moglie la giovane che egli volesse; poi il secondo, e gli altri dopo. E quale incitamento non era questo per le giovani Sannite di educarsi fra semplici, e gravi maniere, che i Sanniti insieme con la bellezza, amavano nelle donne per essere scelte poi dal migliore fra loro? Così presso gli antichi Romani, finché i costumi furono severi, si trovavano quelle donne ammirate fra loro: ma quando in Roma un lusso prodigioso accrebbe l’idea de’ piaceri, estinguendovi ogni virtù, i costumi e le idee furon del tutto pervertiti e corrotti . Or siccome le donne, quasi tutte, seguono sempre il carattere più rilasciato della Nazione in cui vivono, si veggono tanto occupate della lor vanità, ed intente solo nel ricercar nuove e studiate maniere di ornarsi per accrescere la loro beltà e renderla più piacevole ad un maggior numero di adoratori che arrestandosi a contemplarle, debbano tutti esser presi dalla bellezza, e da’ vezzi loro. Questa tal vanità di piacere a molti, e farsi ammirare, rende familiari alle donne alcune idee, che possono produrre in loro funesti effetti; essendo difficile assai che una donna, la quale si espone perpetuamente alla seduzione di un gran numero di folli adoratori, possa serbare intera la virtù sua. Voi mi chiedete di sapere qual sia tra’ filosofi Greci fl migliore che abbia ragionato della felicità. Alcuni dissero che il viver conforme alla natura fosse la vera felicità ed altri, che solo i Savi potevano esser felici, mentre il comune degli uomini ha sempre riposta la sua felicità nel piacere, nelle ricchezze o nel soprastare agli altri per dignità e per onore e passioni. Ma i piaceri di una vita voluttuosa corrompono il corpo, illanguidiscono l’animo e rendono gli uomini del tutto inadatti ad opere virtuose. Le ricchezze non producono per se stesse alcuna felicità: e l’affannosa cura di accumularle, ed il timore di perderle, destano sempre nell’ animo di chi le possiede una perpetua perturbazione. Gli onori, e le dignità, che pure sono menati dalla volubile mano della fortuna, non rendono gli uomini nè felici, nè migliori, anzi se prima il costume loro era corrotto; per gli onori, e per le dignità che acquistano nell’ ordine civile, diventano maggiormente perversi, ed odiosi. Vi sarà dunque nella vita umana alcuna felicità? Per ora vi dico solo che all’uomo saggio felicità può venir sol dal cielo.”

Da “Lettere scientifiche di vario argomento di Nicola Vivezio, 1812”.