Ferita d’arma da fuoco; frattura comminutiva dell’omero sinistro al suo terzo superiore, estrazione del proiettile; resezione di 6 centimetri dell’ osso; guarigione con conservazione di tutti i movimenti dell’arto; del dott. Laskowski . (Riv. di med., chir. e ter. 1873).

L’Autore descrive in che modo, senza l’ausilio di apparecchiature diagnostiche strumentali (i raggi x vennero scoparti nel 1894, ventuno anni dopo la pubblicazione del caso), ottiene la guarigione di una ferita da arma da fuoco, pur infetta. Può ipotizzarsi l’uso dell’etere come anestetico generale, anche se non riportato dall’Autore, visto che veniva utilizzato dal 1846, anno del suo primo utilizzo. L’intervento è cruento; il canale formatosi dal tragitto del proiettile nei tessuti viene sondato col mignolo e con l’ausilio di uno specillo viene localizzato il proiettile ritenuto. La procedura affascina per la meticolosa descrizione e la guarigione apprezzabile visto che antibiotici non se ne conoscevano e i rischi di una amputazione del braccio erano alti.

“Il ferito aveva 36 anni e potè, dopo successo il fatto, camminare per qualche tempo, finchè svenendo per la emorragia venne raccolto. Laskowiski lo vedeva cinque giorni dopo e nel frattempo non erasi fatta alcuna cura. Il di lui braccio sinistro erasi rigonfiato e resosi dolente; all’ inserzione del deltoide scorgevasi la ferita d’entrata del proiettile, piccola e ristretta dal turgore infiammatorio permetteva appena la immissione del mignolo, non eravi apertura di uscita e la deviazione nell’ asse del membro indicava la successa frattura dell’ o- mero: eravi febbre violenta e si adagiava semplicemente l’arto in una doccia metallica; esplorando col dito si arrivava al focolaio della frat- tura, ove sentivasi una moltitudine di frammenti in parte liberi, in parte aderenti, e coll’ aiuto dello specillo si giungeva a sentire la palla nella parete posteriore del cavo ascellare e veniva estratta mediante apertura lungo il margine inferiore del gran dorsale. Era un proiettile Chassepot leggermente sformato, e con esso levaronsi alcuni frastagli di vestimenta. Si praticava quindi lo sbrigliamento dell’ aper- tura d’entrata, tolte parecchie scheggie si passava attraverso ai due orifici un tubo a drenaggio e riposto il membro nella doccia appli- caronvisi cataplasmi emollienti; indi irrigazioni attraverso alla ferita con acqua fenizzata, ma i fenomeni di assorbimento si dichiarano ben- tosto tanto con le febbri accessionali quanto con dolore all’ipocondrio destro e la insorgenza di una artrite alla articolazione tibio-tarsica del medesimo lato che in cinque giorni passava a suppurazione . Miti- gati i primi con alte dosi di solfato di chinina, aprivasi il secondo col taglio, verificandosi la scopertura del malleolo esterno e la suppura- zione della cavità dell’articolazione; i margini scollati mortificavansi e venivano escisi , restava così allo scoperto il malleolo cariato; depuratasi la piaga ed incominciatane la cicatrizzazione, l’osso veniva raschiato e messo così a nudo lo strato sano, prestamente granulava, la piaga in un mese era guarita. In quanto alla frattura, essendo dessa comminutiva, Laskowski, non sperandone una consolidazione pura e semplice, proponeva di intervenire attivamente. Infatti, introdotto il dito nell’ orificio di entrata, rilevava che i monconi dell ‘ omero erano perfettamente denudati e cariati per la estensione di più centimetri, e non volendo andare incontro al lungo ed incerto processo di eliminazione spontanea, ne praticava la resezione. A questo fine, dopo avere allargata l’apertura di entrata mediante incisione verticale , accortosi che i monconi cariati erano molto rarefati e debolmente adesi al restante dell’osso, li es- portava con una robusta molletta incisiva , riponeva quindi in sito il tubo a drenaggio, adagiando l’arto in un apparecchio imbottito. La suppurazione seguitane fu abbondante e di buona qualità, formaronsi varii ascessi all’ ingiro della frattura che si dovettero aprire per estrarre qualche scheggia, il focolaio andò lentamente riempiendosi di linfa plastica, e nello spazio di due mesi il callo era sufficientemente più solido da permettere l’ablazione dell’ apparecchio. Durante tutto il tempo della medicazione adoperossi l’acqua o la glicerina fenicate. L’accorciamento dell’ arto riuscì di circa due centimetri, del resto conservò le dimensioni normali, e l’ammalato godette la integrità as- soluta di tutti i suoi movimenti; non rimaneva che un piccolo seno fistoloso gemente qualche goccia di pus, che ammetteva a stento lo specillo e probabilmente sostenuto da una piccola scheggia destinata ad essere eliminata.”

Studio medico-legale su l’aborto. Dott. A. Tardieu, 1850

Il brano che segue, tratto da un testo di medicina legale di metà ‘800, che riporta uno studio sull’aborto, rattrista il lettore; l’argomento non può essere gradito ai cuori gentili perchè di fronte a tanta disumanita’ l’orrore penetra e fa rabbrividire. La medicina della vita deve fare la sua parte, ed interviene sottolineando il male e nel contempo invitando al bene. Il 900 ha visto legittimare l’aborto con una legge la n.194 del 22 maggio 1978, propagandata come conquista civile, ma non vi sono conquiste civili quando si prevede l’omicidio di innocenti.

“Le donne accusate del crimine furono per la massima parte dell’età di venti, venticinque anni; le più fra esse nubili e spinte a delinquere dall’idèa del disonore; non escluso però qualche caso di donne maritate, alcune delle quali costrette a subire la sconciatura dalla cupida avarizia o dalla depravazione del marito. L’epoca della gravidanza, in cui accade più spesso l’espulsione criminosamente procurata del produtto del concepimento è fra’l terzo mese ed il quinto od il sesto. Il qual fatto ha una ragione fisiologica e morale del suo avvenimento; e per ciò che la donna, prima di venirne a questa colpevole estremità, deve attendere una certa quale sicurezza del suo stato, che non può raggiungere se non al terzo mese; e verso il quinto non è inverisimile che essa trovi nei movimenti della propria creatura un ritegno istintivo a farne sagrificio. La grande maggioranza dei casi mostra pur troppo a canto d’un’accusata, non di rado passiva, un complice che disonora la professione dell’arte salutare, una levatrice e talvolta anche un medico. Nelle trentanove osservazioni da me studiate, si trovano fra i colpevoli venti levatrici e quattro medici! Allorquando una levatrice venga involta in un’accusa di procurato aborto, i periti ponno trovarsi nella circostanza di dover rispondere intorno alle condizioni di esercizio della professione della coaccusata ed alle restrizioni cui questa professione è sottoposta; e ciò a proposito di una prescrizione fatta, o dell’amministrazione di una data sustanza medicamentosa, o di stromenti che siansi adoperati e l’uso dei quali oltrepassi la sfera legittima d’azione delle levatrici. Ben poche sono le donne che, deliberate a sconciarsi, innanzi di abbracciare il partito estremo d’un atto operativo di cui temono i pericoli, non cerchino di evitarlo ricorrendo ad altri mezzi indiretti da loro supposti egualmente idonei a conseguire lo scopo. La maggior parte confessano di aver ricorso a pozioni o sustanze medicamentose, o pure di essersi assuggettate ad alcune pratiche speciali. Riguardo a quest’ultime, esse consistono in emissioni sanguigne generali o locali, in bagni d’ogni maniera, in esercizi corporei affaticanti e forzati, in cadute od altre violenze volontarie (fra le quali può annoverarsi anche la strettura energica del ventre diretta). Quanto alle pozioni o sustanze medicamentose delle quali infinita è la serie, ad incominciare dalle purgative, dalle diuretiche e sudorifere, per venire sino alle emmenagoghe ed alle credute abortive specifiche, la loro impotenza ne eguaglia la molteplicità; Non di meno ve n’ha alcune che sono specialmente in voce di possedere un’azione appropriata a procurare l’aborto; quali sono la sabina, la ruta, la segale cornuta.
Ma dove si tenga esatto conto dei fatti, si riconosce che, se l’azione velenosa della sabina, e più ancora della ruta, si combinano con una certa qual influenza particolare su la matrice, lo stesso non è da dire della segale cornuta che, impotente a provocare la contrattilità di quest’organo , non agisce sovr’esso che per una specie di stimolazione secondaria. Ad ogni modo per altro sì quelle, che questa, hanno potuto in più d’un caso provocare l’aborto. I mezzi diretti che si impiegano a procurare l’aborto, cioè a dire i maneggi od atti operativi, consistono in operazioni più o meno grossolane, praticate su l’utero con l’intento d’introdurvi un corpo straniero e ledere le membrane dell’uovo. La loro esecuzione in genere, non esige nè una mano molto abile sicura, nè un apparecchio complicato, ed anzi talora può compiersi co’l sussidio della mano soltanto. Dove si usino stromenti, ed è il caso più frequente, questi non sono già, come si crede, di una qualità speciale ed apposita, ma generalmente appartengono agli oggetti di uso più commune e domestico; tali furono in più d’una circostanza un ferro da calze, una bacchetta o regolo da tendine, uno spillone, una penna d’oca, un bastoncino, un fuso, ecc. La sensazione provata dalla donna nel momento dell’operazione varia estremamente da quella d’un semplice frugamento, o di una puntura, fino a quella (ed è la più commune) d’un dolore istantaneo, violentissimo, o come di una lacerazione nel basso ventre ed all’ epigastrio, con successione di attacchi nervosi, deliqui, smarrimento completo di sensi, ecc. e quasi sempre con perdita di sangue, e più raramente di liquido amniotico. Poi, se l’operazione è riuscita, la perdita sanguigna ricompare e spesseggia e successivamente il travaglio si dichiara più o meno prontamente; e l’espulsione del feto, annunziata dai dolori caratteristici del parto, avviene entro uno spazio di tempo fra le cinque ore e li undici giorni non oltrepassando però di consueto i primi quattro giorni dall’operazione. Le conseguenze ulteriori dell’aborto criminoso sono costantemente gravi e funeste, più gravi e più funeste che non siano quelle dell’aborto naturale od accidentale. Esse risolvonsi nella morte più o meno pronta nei primi giorni, od anche subitanea, per infiammazione acutissima dell’utero e del peritoneo, per emorragia, ed in qualche raro caso per sincope (produtta forse dall’ eccesso dei dolori fisici e dalle distrette morali insieme); nella morte più tarda per tumori ovarici, per focolari purulenti nel bacino, per degenerazioni cancerose della matrice. Che se per avventura siffatte conseguenze mortali vengono da alcune donne sfugite, rimane però alle medesime per lo più un notevole deperimento nella salute in genere, od una irregolarità persistente nella mestruazione, o la ricorrenza abituale di dolori nei fianchi e nel basso ventre, e tutto il corteggio dei mali che accompagnano le flogosi lente dell’utero e delle sue dipendenze.”

Lettera dell’onorevole W.E. Gladstone a Lord Aberden sui Processi di Stato del Regno di Napoli (parte II).

La lettera che Gladstone scrive a leberden, contiene anche la dettagliata descrizione di come e quanti artifizi vennero creati ad arte per ottenere la condanna di Carlo Poerio; Il sistema è da intendersi applicato anche per gli altri accusati che furono rinchiusi nel carcere borbonico di Montefusco nel 1852 (da leggere le memorie del Castromediano, del Nisco e del Pironti che raccontarono il periodo carcerario). Gladstone, nella lettera, tratta del Poerio, lo descrive come compita persona, eloquente oratore, di specchiata onestà, ministro della Corona sotto la costituzione, occupava uno dei gradi più distinti nel Parlamento. E’ lo stesso Poerio che racconta del suo arresto quando si trova al cospetto dei giudici l’8 febbraio 1850, presente Gladstone che appunta tutto. Alcuni personaggi citati sono riportati in neretto per imprimerli permanentemente nella memoria del lettore.

“La sera prima dell’arresto, al dì 18 luglio 1849, fu, da una persona sconosciuta, lasciata in casa del Poerio, una lettera concepita in questi termini: « Fuggite, e fuggite prontamente. Voi siete tradito, la vostra corrispondenza col marchese Dragonetti è già in mano del governo. Uno che v’ama assai». S’egli fosse fuggito avrebbe somministrato una prova di colpa molto ampia, ma egli conscio di tali cose, non fuggì, e inoltre non esisteva corrispondenza. Ai 19, intorno alle quattro pomeridiane, si presentarono, con falso titolo, due persone alla porta e gli annunziarono ch’egli era arrestato in virtù di un’ordine verbale del prefetto di polizia Peccheneda. Invano egli protesta, la sua casa fu messa sossopra ed egli cacciato in solitaria prigione. Domandò d’essere esaminato e conoscere la causa del suo arresto entro ventiquattr’ore, secondo la legge, ma indarno. Al sesto giorno finalmente fu tradotto innanzi al commissario Maddaloni e gli fu posta in mano una lettera col sigillo rotto indirizzata a lui, e gli fu detto essere del marchese Dragonetti, ma che la *coperta era stata aperta per isbaglio da un ufficiale di polizia (*la coperta di una lettera era un foglio piegato che la conteneva all’interno), il quale per caso aveva lo stesso cognome e che nel veder la lettera racchiusa dentro, l’aveva consegnata alle autorità. Si desiderò che il Poerio l’aprisse e ciò egli fece in presenza del commissario. Nulla poteva essere più artificioso che l’orditura di quest’affare. Ma notate il seguito. L’argomento della lettera implicava alto tradimento; vi si annunziava un’invasione di Garibaldi, si fissava un abboccamento con Mazzini, si alludeva ad una corrispondenza con lord Palmerston (il cui nome era goffamente storpiato) che prometteva aiuto per la prossima rivoluzione. «Vidi subito, dice il Poerio, che si era vilmente contraffatta la scrittura di Dragonetti, e ciò dissi osservando che la prova della falsità era più evidente che non qualunque cumulo di prove materali». Il Dragonetti era uno dei più compiti Italiani, mentrecchè questa lettera era piena zeppa di scerpelloni, tanto di grammatica che d’ortografia. Altre assurdità nom sono pur degne di venir menzionate, quali erano la segnatura in disteso del nome, cognome e titolo, e la trasmissione di una lettera di quel genere per la posta ordinaria di Napoli. Aveva il Poerio fra le sue carte, delle lettere del Dragonetti sulla cui autenticità non poteva cader dubbio; esse furono addotte e paragonate con quella, e la falsità rimase tosto chiarita. Le carte di Poerio non fornivano materia di accusa. Era perciò necessario inventar nuovamente o per dir meglio, lavorare sulle falsità già preparate. Un tal Jervolino, uccellatore frustrato, di bassi impieghi, era stato scelto pel duplice uffizio di spia e di spergiuro. Secondo la deposizione di costui, il Poerio venne accusato di essere fra i capi di una setta repubblicana detta dell’Unità Italiana e dell’intenzione di uccidere il re. Poerio domandò d’essere confrontato coll’accusatore ma le autorità non vollero permettere questo confronto. Fu tradotto di prigione in prigione e per due mesi non si permise di vederlo a sua madre, unica sua prossima congiunta. Così scorsero sette od otto mesi senza che egli sapesse cosa alcuna delle prove che s’adducevano contro lui e per opera di chì. In questo, venne a lui il sig. Antonio dei duchi di San Vito a dirgli che il governo sapeva tutto ma gli farebbe grazia della vita se confessava. Nel processo ei domandò ai giudici che si esaminasse il San Vito, ma naturalmente non si fece. Oltre a cìò il signor Peccheneda stesso, direttore di polizia, e ministro di gabinetto del re, andò spesse volte alla prigione, interrogò diversi carcerati senza testimoni. Uno di questi fu il Caraffaa cuiassicurò che il suo affare verrebbe tosto accomodato, purchè testimoniasse che il Poerio conosceva alcuni biglietti rivoluzionari. Non avendo ottenuto quanto richiesto, prese comiato dal Caraffa con queste parole: Benissimo signore, voi volete la vostra rovina, tal sia di voi. L’accusa del Jervolino formò la sola base reale del processo e condanna di Poerio. Affermava il Jervolino che non avendo potuto ottenere dal Poerio un impiego, lo richiese di farlo ricevere nella setta dell’Unita italiana, che questi lo mandò ad un certo Atanasio, il quale doveva menarlo a un altro, detto Nisco, onde potesse venir ammesso; che il Nisco lo mandò ad un terzo, detto Ambrosio che l’iniziò. Non si ricordava né delle forme, nè del giuramento della setta. Del certificato o diploma o delle ragunate, egli non sapeva nulla. Jervolino poco prima era un mendicante, ora compariva bene in arnese e in buono stato. Il Poerio sosteneva che un certo arciprete aveva dichiarato che il Jervolino aveagli detto di avere una pensione di dodici ducati al mese dal governo per le accuse che faceva al Poerio. Venne esaminato l’arciprete che confermò quanto aveva asserito e fece anche menzione di due suoi congiunti che potevano asserire la stessa cosa. Nel corso del giudizio sì addussero due eccezioni: dimostrava l’avvocato del Poerio come la gran corte straordinaria, incaricata del giudizio, fosse imcompetente per questo caso, perchè l’accusa sì riferiva alla condotta del Poerio quando era ministro, per cui, tali accuse, dovevano portarsi innanzi la Camera dei Pari. L’eccezione non fu ammessa e rigettata nuovamente dopo appello. La seconda eccezione era l’allegato che, contro gli accusati, si ipotizzava la cospirazione contro la vita di alcuni ministri e del giudice Domenicantonio Navarro, presidente della corte, primo col mezzo della bottiglia scoppiata nella scarsella del Faucitano, quindi col mezzo di un corpo di pugnalatori od assassini, che dovevano compiere l’opera ove fallisse il mezzo della bottiglia. Gli accusati protestavano di non voler essere giudicati da lui, e questi presentò una nota alla corte in cui diceva di sentire degli scrupoli a giudicare in questo caso e desiderava d’essere guidato dal resto della Corte. La corte decise unanime ch’egli giudicasse questi uomini imputati di avere avuto l’intenzione di assassinarlo e multò i prigionieri e i loro avvocati in 100 ducati per avere fatta quest’obbiezione! Anche questa decisione venne confermata dopo appello. Navarro votò per la condanna e per la pena più severa. Ben quaranta persone furono private de’ mezzi di difesa per lo scopo di far presto! Gli avvocati dei detenuti seppero che i testimonii spergiuri mon conoscevano gli accusati e un avvocato manifestò il desiderio di chiedere al testimonio che additasse, fra le persone presenti, quella ch’egli accusava. La corte negò questo permesso. I membri dell’immaginaria società battezzata dalla polizia dell’Unità italiana, era di quarantadue persone. In fine di febbraio, Poerio e sedici suoi coaccusati furono confinati nel bagno di Nisida presso il Lazzaretto, furono giorno e notte confinati in una camera sola, lunga circa 16 palmi, alta 8. Quando a notte s’abbassavano i letti non rimaneva spazio tra loro. Potevano uscire solo incatenati due a due. Eravi una sola finestra e naturalmente senza vetri. Le loro catene sono come segue: Ognuno porta una forte cintura di cuoio sopra le anche. À questa sono raccomandati î capi superiori di due catene. Una catena di quattro lunghe e pesanti anella scende ad una specie di doppio anello fissato intorno alla noce del piede. La seconda catena consiste di otto anelli, ciascuno dello stesso peso e lunghezza dei primi quattro, e questa unisce due carcerati insieme, sicchè possono star distanti circa sei piedi. Non sì slega mai, nè il dì, nè la notte questa catena. L’abbigliamento è composto di un rozzo e duro giaco rosso, con brache e berretto dello stesso materiale. Le brache sono abbottonate per tutta la loro lunghezza e di notte si possono togliere senza rimuovere la catena. Il peso di queste catene è circa 8 rotoli (più di 7 chilogrammi) la più breve, e questo peso si deve raddoppiare quando ciascun carcerato ha da portar altresì la metà della più lunga. Il patimento è tanto più grande perchè vengono incatenati insieme incessantemente uomini educati con abbietti. Nel tempo che Poerio e i suoi compagni furono mandati a Nisida, venne ordine dal principe Luigi, fratello del re, che, come ammiraglio, aveva I’incarico dell’isola, che s’usassero ì doppi ferri collo scopo d’infliggere loro un’estrema morale e fisica tortura.”

Diario di un viaggio nel XVIII Secolo

(Raccolte di prose e lettere scritte nel secolo XVIII, Vol II, Milano MDCCCXXX)

Diario di un breve viaggio di Anton Maria Salvini che ci racconta della disavventura sopravvenuta ed inattesa per un temporale e di come ricorse riparo. La buona compagnia di un Abate, il discorrere insieme, la lettura di libri greci, un buon fuoco, una buona cena, un buon letto ed un “saporito” riposo, concludono il racconto. Le immagini che la lettura ci trasmette, rasserenano i nostri temporali, i travagli dei nostri pensieri così diversi da quelli di tre secoli fa.

“Uliveto, 27 Novembre 1707.

A tredici ore e mezzo partimmo l’Abate Torello Franzese e io, jer l’altro, e facemmo la strada discorrendo di cento belle cose, perchè questo Abate è un signore virtuoso e intendente. Passato Montespertoli di due miglia, venne un temporale così fiero che finì di guastare le strade già rotte che non potevano i cavalli reggere, nè tenere i piedi in terra: onde ci convenne smontare di calesso sempre coll’acqua addosso. Seguitavo il rigo dell’acqua, e sguazzavo senza suggezione, anzi per la necessità, perchè andando per le prode, battei due o tre volte in terra; ma non mi feci male perchè si cascava nel morbido. Arrivammo così fradici a un fiumiciattolo cattivo, che si domanda la Pesciola, il quale passammo sulle spalle di due contadini, i quali per carità ci erano corsi dietro gridando che avevamo di più smarrito di non so quanti passi la strada; e se non ci ajutavano questi buon uomini, noi non saremmo ritornati in via. il mio compagno pati assai, perchè i bottoncini piccoli, coi quali usano gli Abati Francesi abbottonarsi, gl’infragnevano il petto. Poi per tragetti e per campi, coll’acqua addosso, grondando per tutto, ci conducemmo vicino a un fossato, il quale era tanto gonfio dalla piena che non si poteva passare; e un buono contadino, che io conoscevo, ci venne incontro scalzo e con stanga appuntata di ferro per guadare il fossato; ma non si potendo passare, fummo obbligati a fermarci in casa del contadino tutto quel giorno, aspettando che l’acqua scemasse. Il mio compagno, che aveva più sonno che fame, andò a riposare, dopo essere stato al fuoco a riaversi. Il contadino mi levò tutti i panni, mi diede suoi calzeroni di bambagia,
sue scarpe, suoi calzoni e sua giubba assai bella e buona per contadino, e suo berretto; stando così due giorni in questo a abito, aspettando che i miei panni fussero rasciugati. E finalmente a un’ora di notte con torce di campagna, cioè con covoni di paglia accesi, arrivammo al fossato, ove l’acqua era calata, e arrivava poco sopra il ginocchio; e sulle spalle del buon contadino, che era grande e forte, valicai il fossato. E l’avere mangiato un poco a casa del contadino, che mi favori d’una buona frittata, d’un pane di grano con una buona caciuola ristoratomi, e con un buono suo vin nuovo confortatomi, tutto questo mi servì per passare con più lestezza e con più cuore il fossato. Poi fu facil la strada. E a un’ora e mezzo, o piuttosto a due ore di notte rifiniti arrivammo alla villa, nella quale con buon fuoco e con buona cena e con buon letto prendemmo, dopo tanto travaglio e fatica, un saporito riposo. Qui mi ritrovo sempre in casa pel cattivo tempo che seguita; ma non manca conversazione e ci spassiamo colla lettura di libri greci; anzi desidererebbe quassù quel mio Teocrito, che non mi avveddi di portar meco. Vi saluto.”

Lettera di Anton Maria Salvini (1653-1729) ad Antonio Montauti, suo amico.

(Raccolte di prose e lettere scritte nel secolo XVIII, Vol II, Milano MDCCCXXX)

Non spendere, tutti possono farlo, difficile è farlo; bisogna tener conto di quanto si possiede, di quanto si guadagna, delle spese obbligate, della necessità o meno della spesa che si affronta, della necesstà in caso di bisogni inaspettati… tutto questo è lavoro mentale. chi non spende, non è capace di “organizzare la spesa” e non è capace neanche di organizzare altro! La lettera di Salvini è chiarificatrice.

“Io non ho mai stimato buono economo quello che non ispende, perchè questa è una economia che può riuscire a tutti. Come non si spende, ognuno sa avanzare; non ci è gran virtù, anzi ci è il vizio della miseria, della sudiceria e dell’avarizia. Buono economo stimo quello che spende e risparmia; spende dove va speso, e risparmia dove va risparmiato; spende con vantaggio, la sua lira la fa valere ventiquattro soldi; spende nelle spese utili e necessarie, leva le superflue: insomma sa spendere e sa risparmiare; chè qui consiste la virtù della economia, non già nel non ispendere punto, come molti fanno. Così non ho mai stimato buon galantuomo quello che de’fatti suoi non parla punto, e non gli dice a nessuno, ma quello che sa quali fatti sono da dire, e quali da non dire; e che distingue le persone a chi si può dire, a chi no; chè il dirgli a tutti è una infermità di lingua e di giudizio. Sentii dire una volta a uno uomo tanto grave che spiombava, che non bisognava, diceva egli, mai discorrere di sè a nessuno. Per esempio: io sono stato oggi fino al Poggio Imperiale a spasso; questo, secondo lui, non si poteva dire, e teneva questa regola di non parlare di sè in nessuna maniera. Questo ch’io dico, è diventato magro, spento, sparuto; e credo che questa stiticheria col tempo l’ammazzerà. Ho conosciuto due amici che per essere tanto cupi, e non si slargare a nulla, sono morti prima del tempo; e uno di questi, come disperato, il quale era Lucchese e diceva alla sua usanza, che bisognava comprare e non vendere, e la prima sillaba della parola vendere profferiva coll’e aperta e non istretta, come usiamo noi Fiorentini. Ci sono poi di quelli, come alcuni de’ Lombardi, che aprono il suo cuore a tutti, fanno scoprire subito le loro inclinazioni, il loro genio al primo, per dir così, che incontrano per la strada . Questo è un altro estremo, ed è da fuggirsi, perchè pochi galantuomini și trovano, e lo scoprirsi a gente garga e sciocca, come i più delle persone sono, è pericoloso. In somma il non dir nulla de’ fatti suoi è regola inutile e dannosa; il dire ogni cosa e a tutti senza distinzione, è semplicità e sciocchezza che rovina e fa danni grandissimi. Similmente il discorrere degli amici è cosa gioconda; ma bisogna vedere con chi si parla, e sfuggire quanto la peste i rapportatori, e quelli che fanno il mestiero di mettere zeppe tra un amico e l’altro. I segreti di cose confidate e di cose importanti, o che sapute possono tornare in grave pregiudizio dell’amico, non si debbono mai dire a nessuno del mondo, e debbono marcire in corpo. Altre minuzie di piccole imperfezioni dell’amico, o di cose che non importano, può uno senza pregiudicare all’amicizia talvolta aprire nel discorso, e ci va sempre il giudizio che regola il tutto: che cosa si dice, a chi, e come. Così la virtù della segretezza, che è l’anima dell’amicizia, non consiste nel non dir nulla, ma consiste nel tener segreto quel che va tenuto segreto. Mi voglia bene.

Luglio 1707″